Ancora penalizzate le aree colpite dal terremoto: un lento declino favorito dai ritardi nell’opera di ricostruzione Il borgo di Santo Stefano di Sessanio, in Abruzzo, uno dei simboli dell’Italia a rischio desertificazione: il centro Italia da tempo fa i conti con il declino delle aree urbane meno popolate (foto: Giovanni Lattanzi)
Tremila Comuni, in Italia, sono a rischio desertificazione. Dove non si produce ricchezza la gente non può più vivere, allora lo Stato smantella servizi ritenuti “inutilmente costosi” come ospedali, punti nascita e uffici. Non si provvede più alla manutenzione delle infrastrutture (quando ci sono) e i giovani, terminato il ciclo scolastico, fanno le valigie per trovare lavoro altrove. A presidiare il territorio rimangono solo gli anziani, finché campano.
Così si perdono tradizioni e identità locali. E muoiono i luoghi. È il fenomeno dello spopolamento che, accompagnato dall’invecchiamento, interessa i piccoli centri soprattutto del Sud e delle Isole, ma anche larghe sacche montane nel Centro e nel Nord della Penisola penalizzate da isolamento o da gravi calamità naturali come il terremoto o i dissesti idrogeologici. Una legge del 2017, la 158, la “salva borghi” prevede misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli Comuni, favorendo la riqualificazione e il recupero dei centri storici.
A tutt’oggi però non sono stati ancora approvati dal governo giallo-verde i decreti attuativi che consentirebbero di utilizzare le risorse disponibili: 160 milioni di euro fino al 2023. «Serve una rivoluzione culturale – commenta Massimo Castelli, sindaco di Cerignale, nel Piacentino, e coordinatore Anci Piccoli Comuni –, alle spalle delle grandi città abbiamo un “Ovest” da riscoprire». E fa un appello: «La legge ha aperto un hotel a venti piani: ci fanno prendere l’ascensore o le scale per salire? Ora è necessario trovare soluzioni per superare l’impasse attuale, dalla flat tax territoriale a nuove infrastrutture tecnologiche». Ma la situazione resta grave. In base a un rilevamento Anci su dati Istat, dal 1971 al 2015 sono 115 le municipalità che hanno registrato un esodo dei residenti superiore al 60%.
Le province con i tassi di emigrazione più consistenti si trovano nel Nord (Bolzano, Vicenza, Mantova, Imperia e Trieste) e in Sicilia (Agrigento, Catania, Caltanissetta ed Enna). Oltre lo Stretto, in particolare, la quota dei giovani fino a 24 anni senza un lavoro tocca il 53,6%. «Ma la disoccupazione è solo la punta dell’iceberg e non la causa principale dello spopolamento: vi sono elementi sommersi e poco definiti come le mediocri condizioni di vita sociale, la mancanza di vie di comunicazione, carenze o totale assenza di welfare e, sempre più spesso, frequenti episodi di discriminazione politica» spiega Giuseppe Dino, un ingegnere 29enne di Petralia Sottana, nell’entroterra palermitano, emigrante anche lui dal 2016, che ha condotto insieme ad altri giovani, il sondaggio “Fuga dalle Madonie”, la fotografia sociale di un comprensorio con 17 Comuni in via di smobilitazione demografica.
Cosa emerge dalla ricerca? «Oltre il 40% degli emigrati, a parità di condizioni, qui non tornerebbe – risponde Dino – e ciò vuol dire che il lavoro non è decisivo: si può anche avere un posto in banca ma è il modo di vivere che fa la differenza». Quali rimedi, allora? Per le Madonie, Dino e i suoi collaboratori hanno promosso una piattaforma web per favorire la diffusione delle informazioni sulle azioni politiche e la progettualità delle comunità locali, scambiarsi esperienze e condividere le buone prassi tra madoniti emigrati e non. Nel resto della Sicilia per arginare lo svuotamento dei paesi diverse amministrazioni locali hanno messo in vendita case abbandonate nei centri storici a costi irrisori (tipo un euro) con l’obbligo per i nuovi proprietari di ristrutturarle perché spesso sono a rischio agibilità: è accaduto a Sambuca, Salemi, Gangi.
Una scelta che hanno preso, in altre regioni, anche i sindaci di Bormida (Liguria), Carrega Ligure (Piemonte), Ollolai (Sardegna) o Fabbriche di Vergemoli ( Toscana). In Calabria quello di Riace è un “caso simbolo” di rianimazione di un borgo morente, con il progetto del sindaco Mimmo Lucano che coinvolgeva direttamente i migranti. A Sant’Alessio d’Aspromonte, 400 abitanti, nel reggino, è accaduta una cosa simile con i rifugiati ospiti dello Sprar. E Vaccarizzo, 500 anime, frazione di Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, è stato addirittura “adottato” dal Mit ( Massachusetts Institute of Technology) di Boston ed è destinato a diventare un esempio internazionale di rigenerazione del territorio urbano. C’è poi il caso più recente di Esino Lario, Comune lombardo che ha simbolicamente “messo in vendita” il municipio per 200 mila euro e a pochi denari anche i moumenti del paese che sovrasta il lago di Como: una provocazione, il grido d’allarme di uno dei tanti piccoli centri “dimenticati”.
Nell’entroterra marchigiano – province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno colpite dal terremoto del 2016 – sono 83 i Comuni del cratere: nel 72% di questi risiedono meno di 3.000 abitanti che già soffrivano dei mali tipici delle aree interne: marginalità geografica e carenze di infrastrutture, invecchiamento, emigrazione dei giovani. Un lento declino favorito dai ritardi nell’opera di ricostruzione. Come nelle aree martoriate dal terremoto in Umbria, Abruzzo e Lazio dove anche prima del sisma la popolazione diminuiva, a causa della crisi economica. Ma se prima nelle Marche spariva un piccolo borgo di 800-1000 abitanti, dopo il terremoto scompare in media, ogni anno, un Comune grande come Sarnano, che conta 3.100 residenti. Lo dice uno studio di Nico Bazzoli, ricercatore di sociologia del territorio dell’“Università Carlo Bo” di Urbino.