Emilio Randacio in una foto tratta dal suo profilo Facebook (tramite Ansa)
«Il giornalista è sempre uno che dopo sapeva tutto prima». Si presentava così sul suo profilo twitter. In realtà Emilio Randacio era l’esatto contrario, lui che è stato autore di una infinita serie di scoop anticipando scandali politici e sviluppi investigativi. Un mastino, come si dice di quei reporter che non mollano mai la presa. Ma un malore, la scorsa notte, gli ha impedito di scrivere ancora, a pochi giorni dai suoi 50 anni.
Non c’è voluto molto ai colleghi de La Stampa per capire che qualcosa era accaduto. Da oltre vent’anni Randacio era tra i primi a battere i corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano fin dal mattino presto. Tranne oggi. Quando i vigili del fuoco hanno forzato l’ingresso della sua abitazione a Milano non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.
Ligure di Albisola (Savona), da giovanissimo aveva iniziato con Indro Montanelli, che lo aveva portato con sé a La Voce, fino a quando il quotidiano non chiuse i battenti. Così nel 1996 Randacio approdò ad Avvenire, dove ha continuato a occuparsi di cronaca giudiziaria fino al dicembre 2006.
Poi il passaggio a Repubblica e, nel 2017, a La Stampa. Nel 2008, concludendo una delle sue inchieste giornalistiche più difficili e note, indagando sui servizi segreti italiani, aveva pubblicato il libro «Una vita da spia», un testo di riferimento per comprendere le luci e le ombre dell’intelligence. Mancherà ai suoi familiari, ma mancherà soprattutto al giornalismo vissuto senza padrini, né padroni e senza mai risparmiarsi.