Grosso colpo contro i trafficanti di esseri umani in Italia e in Libia. Confermati dall’inchiesta "Glauco 4-Hawala" della procura di Palermo i nomi dei 4 signori etiopi ed eritrei del traffico, a capo della rete che gestisce torture e mercato di esseri umani sulla rotta africana orientale e nei centri non ufficiali in Libia. I quattro capi – gli eritrei Abduselam detto Ferenshawi (LEGGI QUI e QUI), il francese, Wedi Isaak, Kidane Zacharias e l’etiope Welid come abbiamo scritto più volte – restano latitanti come un quinto indagato Ghermay Alexander, detto Alecco, il raccordo tra i boss. Ma Welid e Kidane, due tra gli organizzatori del viaggio della morte del 18 aprile 2015, ci risultano attualmente sotto processo ad Addis Abeba. Inoltre la polizia ha arrestato a Milano e Udine 14 componenti di due cellule della rete criminale intercontinentale che favoriva l’immigrazione dai lager libici e raccoglieva in Italia il denaro estorto ai parenti, residenti anche all’estero, per riscattare migliaia di congiunti, far cessare le torture e farli partire verso l’Italia e da lì verso le destinazioni finali in Nord Europa e Usa.
La banda usava sistemi di intermediazione finanziaria illegale come la hawala, sistema fiduciario usato anche dai jihadisti per sfuggire ai controlli, e il comune money transfer, principalmente Postepay, Moneygram e Western Union. Il fiume di danaro arrivava sui conti correnti del gruppo a Dubai. L’indagine è stata svolta dalla squadra mobile di Palermo e dal Servizio centrale operativo con il coordinamento del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Marzia Sabella e dei sostituti Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Giorgia Righi. Le indagini sono partite dalla ricerca dell’inafferrabile trafficante etiope Ermias Ghermay (leggi anche qui) – già apparso nelle precedenti indagini Glauco perché ha sulla coscienza in naufragio del 3 ottobre 2013 di Lampedusa – e si sono quindi imbattute nella rete criminale, la cui area di azione italiana era estesa tra Milano, Udine, Pordenone, Venezia e Roma mentre in Africa agiva, secondo la procura palermitana, sulla rotta orientale che collega Eritrea, Etiopia, Sudan con la Libia.
Fin dal 2017 il network supportava le attività di traffico sia nel viaggio dei migranti sul continente africano sia nei campi di prigionia libici. Una volta raggiunta la Sicilia a bordo delle navi impiegate in attività di soccorso in mare, i migranti venivano aiutati dagli indagati ad allontanarsi dai centri di accoglienza. Venivano nascosti e riforniti di vitto, alloggio, titoli di viaggio e falsi documenti e poi aiutati a raggiungere il nord Europa e gli Usa. Sono stati sequestrati 30mila euro in contanti.
I capi di accusa sono stati raccolti attraverso le testimonianze dei profughi scampati ai centri di tortura, i quali hanno confermato le condizioni di vita durissime, le violenze fisiche e psicologiche e le torture utilizzate dai trafficanti per ottenere dai parenti dei prigionieri il pagamento del denaro per la liberazione e la prosecuzione del viaggio. E attraverso numerose intercettazioni telefoniche delle conversazioni dei fermati – 12 eritrei, un sudanese e un etiope – con i 4 boss latitanti e altri due trafficanti libici, Aziz e Mousa. Il secondo ci risulta essere Musa Abu-Qarin, alias "the doctor", criminale già sulla lista nera del Consiglio di sicurezza dell’Onu, altro organizzatore del peggior naufragio della storia dei barconi nel Mediterraneo, quello del 18 aprile 2015 costato la vita a 1.000 persone. Musa viene definito dagli indagati «colui che deve essere messo al corrente di ogni situazione riguardante l’arrivo delle persone, perché è un personaggio importante della Libia che controlla ogni arrivo e partenza».
Le intercettazioni confermano anche il ruolo del potente supertrafficante eritreo Abduselam, «piccolo di statura e dalla voce stridula» come gestore dell’hangar delle torture – il giardino dei datteri – del famigerato centro non ufficiale di Bani Walid riservato ai suoi connazionali, cui estorceva riscatti da 12.500 dollari ciascuno per non morire. Dallo scorso novembre alcuni prigionieri da noi contattati in Libia e da lui "acquistati" e torturati a Bani Walid, hanno affermato che si troverebbe a Dubai. Altre conversazioni ascoltate e registrate dagli inquirenti indicano in Kidane Zecharias, Welid, Aziz e Wedi Isaak coloro con i quali bisogna raggiungere sui pagamenti dei riscatti «un giusto compromesso». Kidane l’eritreo e Welid l’etiope per la procura di Palermo non risulterebbero ancora «compiutamente identificati», anche se arrestati ad Addis Abeba tra febbraio e marzo 2020 grazie alla denuncia di alcune loro vittime eritree tornate dall’inferno libico. Le carte giudiziarie parlano di accertamenti e scambi di documentazione in corso, ma il processo ai due è iniziato in questi giorni alla corte federale della capitale etiopica. Le autorità italiane e di altri stati europei hanno chiesto la loro estradizione ricevendo risposte negative. Il motivo è che i due hanno torturato cittadini etiopi e prima vanno giudicati lì.
Gli arrivi organizzati dalla rete italo-africana e individuati dalle forze dell’ordine nell’inchiesta tra il 2017 e il 2018 sono diversi, tra cui quello dei 190 trasportati il 16 agosto 2018 a bordo della nave della Marina Militare Diciotti, al centro di un caso con protagonista l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale andrà a processo per questo il 3 ottobre e che ieri ha rivendicato la difesa dei patri confini dai trafficanti. Ma nell’inchiesta non compare nessuna Ong, come voleva la propaganda politica dell’epoca alimentata dalle "bestie" sui social che le indicava come complici dei trafficanti, bensì criminali spietati con nomi, cognomi e foto a capo di reti intercontinentali complesse. E i centri di detenzione libici sono descritti come lager e non centri vacanze. Squarci di verità su uno dei peggiori crimini di questo tempo cominciano ad emergere, il mosaico della giustizia si va componendo.