I primi soccorsi ai migranti dopo la tragedia del 2015 - Ansa, Msf
Un arresto eccellente in Etiopia, un passo avanti per rendere giustizia ai quasi mille morti del naufragio del 18 aprile 2015, il più grande nella storia recente del Mediterraneo. Quello che portò sotto il mare il quattordicenne del Mali cui la madre aveva cucito la pagella scolastica nel giubbotto. L’11 febbraio ad Addis Abeba è stato fermato nel sobborgo di Bethel uno degli intermediari che, secondo i testimoni, avrebbero organizzato il viaggio della morte.
Si tratta di Kidane Zacharias, eritreo, che ha operato nell’ex 'scatolone di sabbia' dal 2013 al 2019. Rapiva, violentava, uccideva, picchiava ogni giorno chi non pagava i riscatti e rivendeva i migranti tenuti alla fame e con poca acqua nei centri di Nesma, Swarif e Bani Walid, autentici gironi infernali. Kidane è stato riconosciuto da alcune delle sue vittime eritree portate dalla Libia in Etiopia che lo hanno coraggiosamente denunciato alla polizia. La sua presenza rivela una tendenza inquietante: data l’intenzione del premier Abiy Ahmed di chiudere progressivamente i campi profughi per eritrei dopo la pace con l’Asmara e chiudendo loro le frontiere, era nel Corno per convincere i rifugiati nei campi e ad Addis a partire verso il Sudan allettandoli con promesse e prezzi al ribasso. In Libia li avrebbe rapiti. Dicono i testimoni che sia arrivato a chiedere tra i i 7.500 e i 10 mila dollari per la libertà e la vita dei prigionieri. E che abbia cominciato la sua attività portando la gente nel Sinai, dove vendeva i connazionali alle bande di criminali di beduini che asportavano gli organi a chi non pagava il riscatto.
La prova vivente del legame tra le bande di trafficanti che in Egitto dal 2009 al 2012 cambiarono le modalità del traffico di esseri umani – con rapimenti, lunghe prigionie e stupri e violenze estreme sui prigionieri in diretta telefonica con le famiglie per estorcere i riscatti – e quelle che agiscono in Libia, dove sono state esportate le stesse modalità dopo il 2013. Torniamo alle ore convulse del viaggio della morte di quasi 5 anni fa. Per il disastro del 18 aprile furono condannati nel 2016 i due scafisti al timone della barca partita la sera prima dalla spiaggia libica di Garabulli e affondata nello scontro con la portacontainer King Jacob, giunta in soccorso in un punto a 180 chilometri dalle coste libiche e a 320 dalla Sicilia. Ma i boss, gli altri brokercome Kidane che ammassarono il triplo delle persone consentite dalla capienza dello scafo senza alcuna pietà rinchiudendo nella stiva chi aveva pagato meno, come accadde nel naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, sono ancora in circolazione.
L’arresto nella capitale etiopica è un segnale agli investigatori italiani, che nel dicembre 2016 a Catania, utilizzando per la prima volta le testimonianze dei superstiti, riuscirono a far condannare a 18 anni al 'comandante' tunisino Mohammed Ali Malek, per naufragio e omicidio colposo plurimo e a 6 anni il suo 'mozzo' siriano Mahmud Bikhit per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma non hanno mai smesso di cercare i pesci grossi. Chi erano i trafficanti che hanno sovraccaricato lo scafo condannandolo all’affondamento? L’analista maltese Mike Micallef stringe il cerchio. Scriveva nel 2017 in un report della Global initiative against transnational crime che si era creato un forte legame tra le reti criminali di Garabulli e quelle transnazionali che gestiscono il famigerato centro di transito irregolare di Bani Walid, in mano a gang criminali e tuttora fuori controllo. «La rotta da Khartoun a Kufra e poi Bani Walid era dominata da sodalizi criminali eritrei e sudanesi che organizzavano viaggi diretti tra Khartoum, capitale del Sudan dove vivono molti eritrei ed etiopi in attesa di partire per l’Ue, e il centro intermedio di Kufra e poi Bani Walid». Le indagini hanno accertato che più di 400 morti erano eritrei, una parte etiopi del Tigray.
Dunque ascoltando i quattro eritrei superstiti del naufragio, i soli che è stato possibile rintracciare attraverso la rete di Eritrea democratica, si possono conoscere i nomi dei criminali che portarono metà del carico. Anzitutto il famigerato trafficante eritero Medhanie Mehred Yedhego, il 'generale', che dopo quell’anno lasciò la Libia per riparare a Dubai e poi in Uganda, dove avrebbe reinvestito indisturbato i guadagni di anni di traffici di carne umana tra Sudan, Sinai e Libia. Ha sempre goduto di protezioni altolocate dato che gestiva, secondo diversi rapporti ufficiali, la caffetteria dell’ambasciata eritrea di Tripoli. Suo complice ed erede della sua rete in Libia è Mulu Wedi Issak, già citato nelle carte dell’inchiesta Glauco 1 della procura palermitana sul naufragio di Lampedusa, accusato di essere un assassino torturatore e stupratore che si troverrebbe tuttora a Tripoli. Dopo essere stato arrestato e rilasciato starebbe cercando di farsi registrare dall’Unhcr come rifugiato.
Altro criminale indicato dai sopravvissuti è Welid, complice di Kidane, un etiope che continua a gestire sequestri e traffici in Libia ma che si trova attualmente ad Haro Maya in Etiopia. Risulta invece latitante l’ultimo grosso trafficante, che ha operato in Libia fino alla fine dell’anno scorso e ora sarebbe a Dubai. Si tratta di Abduselam detto Ferenshawi, il francese, padrone della rotta da Khartoum a Bani Walid, dove ha venduto non più tardi di tre mesi fa 66 connazionali ormai senza soldi ai torturatori libici, egiziani e sudanesi che stanno estorcendo riscatti da 12.500 dollari con violenze estreme.
Sono loro secondo i testimoni ad aver portato sulla spiaggia la sera del 17 aprile 2015 almeno i cittadini subsahariani, ad averli imbarcati a forza fino a farli quasi soffocare sotto la minaccia delle armi delle squadracce libiche assoldate. L’ultimo della lista è stato appunto Kidane Zacharias. Per lui ora c’è un giudice ad Addis Abeba, ma c’è il rischio che esca su cauzione e sparisca. Se parlerà anche a un inquirente italiano, potremo conoscere le verità ancora nascoste sulla strage più grande del mare di mezzo e sugli orrori della Libia. I 28 sopravvissuti, come raccontò Annalisa Camilli in un pluripremiato reportage su Internazionale sulla barca senza nome, sostennero di essere stati portati sulla spiaggia e di aver pagato gli intermediari al servizio di un trafficante libico soprannominato Ali oppure di essere stati prelevati dai centri di detenzione nell’area dopo mesi di prigionia da diverse gang. Arrivavano da Pakistan, Bangladesh e Centrafrica.
La barca partita dalla spiaggia di Garabulli, a est di Tripoli, non aveva nome. Venduta ai libici da pescatori egiziani, sulla prua aveva una scritta in arabo poco visibile 'Benedetto da Allah'. Mesi dopo il naufragio, il 7 maggio 2016, il governo italiano iniziò il recupero del relitto e dei corpi sotto il mare per dare un nome ai superstiti ad Augusta, in Sicilia, con la collaborazione dell’istituto di medicina legale, il Labanof, di Milano diretto dalla professoressa Cristina Cattaneo. Un documentario italo francese, del 1029, '387', di Madeleine Leroyer scritto con Cecile Debarge racconta con immagini toccanti l’attività dell’équipe e si sofferma sulle testimonianze dei sopravvissuti, nessuno dei quali vive più in Italia.
Dodici vengono dal Mali, tre dal Bangladesh, quattro dall’Eritrea, due dal Senegal, due dalla Somalia, uno dalla Sierra Leone, uno dal Gambia, uno dalla Costa d’Avorio, uno dalla Tunisia e uno dalla Siria. Il pubblico italiano rischia di non vedere il filmato, ad oggi nessuna televisione vuole trasmetterlo. Sarà presentato nella tarda primavera a Sabir, il festival sull’immigrazione. Eppure è molto interessante per capire chi viaggiava su quel barcone e come si comportarono i trafficanti. Racconta anche che la maggior parte dei morti trovati finora aveva tra i venti e trent’anni. Un terzo erano adolescenti. Quasi tutti venivano dall’Africa: Eritrea, Somalia, Ghana, Mali, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Ciad, Senegal, Guinea Bissau e Gambia. Alcuni venivano dal Bangladesh e dal Pakistan.