Cronache di un maggio di tragedie dimenticate dall'inferno libico. I rapporti dell’Onu e di Ong come Medici senza frontiere e le testimonianze di chi è riuscito a fuggire denunciano da mesi torture e crimini di trafficanti, milizie e Guardia costiera libica ai danni dei profughi africani. Ma nel Far West dell’ex 'quarta sponda' i migranti imprigionati nei centri di detenzione in queste settimane molto calde vengono rapiti dai trafficanti mentre quelli in fuga sono uccisi da miliziani o predoni o da aerei militari. E chi resta in cella, quando non viene torturato, rischia la morte per fame e sete. Segno che i trafficanti non si fermano. Le notizie sono poche e trapelano quando i detenuti riescono a telefonare o a messaggiare sui social con i connazionali in Europa.
In Italia sono i rifugiati eritrei a venire contattati da persone fuggite dall’Asmara o dai campi profughi in Etiopia. Nelle galere libiche ve ne sarebbero al momento 7.000. Alle 22 di mercoledì 23 maggio da Bani Walid, grande città situata 150 chilometri a sud-est di Tripoli che ospita un centro di detenzione ed è base di grosse organizzazioni di trafficanti che gestiscono la rotta verso la costa, arriva in Italia una chiamata drammatica. «Abbiamo tentato di scappare, hanno cominciato a spararci. Parecchi di noi sono stati colpiti: li abbiamo visti cadere. Temiamo ci siano diversi morti. Quasi tutti sono stati ripresi. Solo in pochi siamo ancora liberi, ma non sappiamo dove andare. Fate qualcosa, altrimenti non avremo scampo!...». I profughi che hanno lanciato l’appello erano prigionieri della banda di 'Musa Diyab', scrive 'The Libya Observer' in un luogo denominato 'Factory 51'. Il sito libico conferma che il trafficante ha fatto aprire il fuoco su oltre un centinaio di migranti - eritrei, etiopi e somali- e che 20 sarebbero ricoverati in ospedale con ferite gravi. Un’altra fonte, 'Migrace.org' parla di 17 morti e circa 100 persone che sarebbero riuscite a fuggire. A portarli a Bani Walid due emissari eritrei. «Si chiamano Kidane e Welid – hanno detto i profughi al telefono – Ci hanno illuso con il miraggio di un imbarco verso l’Europa. Pensavamo di poter partire, invece sono spariti con i soldi e ci siamo ritrovati in balìa della banda a cui ci avevano ceduto. La disperazione ci ha spinti a tentare di fuggire dal campo in cui ci avevano rinchiusi. Le guardie hanno cominciato a usare i mitra. Hanno ripreso quasi tutti. Se qualcuno non ci aiuterà rischiamo di essere catturati e di tornare in quella prigione».
Altro centro di detenzione sovraffollato (700 solo gli eritrei) con persone catturate nelle retate in mare della Guardia costiera tripolina è a Zuwara, a 60 km dal confine con la Tunisia. Le testimonianze pervenute ad Abraham Tesfai, rifugiato e universitario, membro del coordinamento eritreo democratico, parlano di morti di stenti e di persone sparite perché rivendute dai poliziotti libici ai trafficanti. La sorte che toccherà ai disgraziati di Bani Walid. Ma a volte gli stessi trafficanti vanno a prelevare i prigionieri. «La notte dello scorso 14 maggio – prosegue Tesfai – il centro di detenzione statale a Gharyan (città costiera a poco meno di 100 chilometri a ovest da Tripoli) è stato attaccato dai trafficanti». Vi erano imprigionati da ottobre - scrive Cornelia Toelgyes sul sito 'Africa express' - 390 eritrei e 141 somali in parte arrestati per immigrazione illegale, altri intercettati e riportati in Libia dalla Guardia costiera tripolina. I prigionieri sono allo stremo, denutriti e in condizioni igieniche estremamente precarie. «Durante l’attacco – prosegue Tesfai – i trafficanti sono riusciti a rapire 180 persone.
Avevano pagato 3.000 dollari per raggiungere la Libia, probabilmente le famiglie dovranno sborsarne altrettanti per la libertà di ciascuno. Chi non ha i soldi viene rivenduto ad altre bande e, se sopravvive, finisce a lavorare come schiavo». Gli altri detenuti scampati all'attacco dei trafficanti sono stati fermati a colpi d’arma da fuoco dalle forze di sicurezza libiche. È una strage. A Tesfai, arrivato in Italia nel 2009 dopo aver provato sulla sua pelle la durezza delle prigioni libiche, alcuni sopravvissuti testimoniano che a terra sono rimasti 8 morti e 29 feriti, 12 dei quali gravi.Vengono ricoverati, ma di loro dopo 10 giorni non si sa nulla. Gli altri 370 detenuti sono stati spostati a Tripoli nel sovraffollatissimo centro anti immigrazione del ministero degli Interni all'aeroporto. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati è stato informato, ma non si hanno notizie di interventi. «Stando ai racconti – rivela Tesfai – crediamo che da gennaio siano morte almeno 200 persone nelle prigioni libiche». Un altro massacro è accaduto il 14 maggio in Cirenaica, ai confini con l’Egitto. Il governo di Al Sisi ha chiuso le coste, un gruppo di 38 profughi eritrei che aveva lasciato la Libia per tentare la traversata da Alessandria, decide di tornare a Kufra. I trafficanti li trasportano sulla rotta secondaria costiera su tre pick up, ma durante il viaggio un aereo bombarda due autoveicoli. Perdono la vita 5 giovani, i feriti sono 8. Si sospetta che li abbia colpiti l’aviazione dell’Esercito nazionale libico guidato dal generale Haftar, sostenuto da Russia, Egitto e Arabia Saudita. Tragedie dimenticate, conseguenza dell’accordo che ha bloccato i flussi l’anno scorso.