venerdì 14 febbraio 2025
A Roma in 400 per la prima del movimento degli amministratori ispirato alla Settimana sociale dello scorso luglio. «Dai credenti un argine alle autarchie»
Un momento del Convegno

Un momento del Convegno - Siciliani

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Lo spirito della «rete di Trieste» emerge prepotente quando il coordinatore, Francesco Russo, esprime la solidarietà della platea a Sergio Mattarella per l’attacco da parte delle autorità russe. Una standing ovation di cinque minuti per il presidente della Repubblica, considerato, dai 400 amministratori locali accorsi a Roma, il principale e più autorevole riferimento per l’impegno dei cattolici in politica e nelle istituzioni.

Un interminabile applauso che è anche la sintesi di un pomeriggio intenso: se centinaia di amministratori di ispirazione cristiana si sono autoconvocati a Roma nel giorno di San Valentino, a prescindere dalle appartenenze partitiche, è perché hanno preso sul serio l’allarme sulla «democrazia malata» lanciato a luglio durante la Settimana sociale, quando sia Mattarella sia papa Francesco - anche per il Santo Padre un lungo ed emozionato applauso di vicinanza - hanno chiesto ai credenti di essere tra gli antidoti da opporre alla crisi.

Perché poi il tema è questo: la democrazia è sfidata dalle autarchie, dalle democrature e anche da democrazie che si autarchizzano a piccole dosi. Russo, ex senatore triestino, vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia e tra i principali promotori della rete, fa leva proprio sull’urgenza storica per spiegare il senso del progetto: «Conflitti, egoismi nazionali, tecnologie slegate da ogni pensiero sulla persona, oligarchie economiche fuori controllo, crisi ambientale, migrazioni...Fa sorridere che a fronte di tutto ciò qualcuno pensi ancora a scorciatoie come un nuovo partito, una nuova corrente, una lobby o un’altra leadership destinata a consumarsi in breve tempo. Serve ben più di un partito - prosegue -, serve un luogo che sia rivoluzionario, diverso, dove ritroviamo la libertà di confrontarci e di dire la nostra fuori dalle logiche del bipolarismo». Rivoluzionario, originale, diverso, «come l’ornitorinco», lo «strano animale che sfida le classificazioni». E mentre propone la metafora, alle sue spalle appare proprio l’immagine della curiosa creatura. È appunto, la «rete», la «costituente» degli amministratori di ispirazione cristiana. Trasversale, e perciò sufficientemente autorevole da non dover seguire le “linee di partito” se, ad esempio, si parla della legge sul fine vita in Toscana. Tema che Russo tocca, concludendo la prima giornata, riconoscendo sia la «fuga in avanti» della Regione sia il «silenzio» del Parlamento. L’intervento di Francesco Russo arriva al termine di una tavola rotonda, moderata dal giornalista Marco Damilano, in cui si sono confrontate, con pacatezza, diversi modi di interpretare la presenza cattolica in politica, nei partiti e nelle istituzioni.

Gli spunti sono stati molteplici. Paolo Ciani, leader di Demos e vicecapogruppo del Pd, ha messo immediatamente il dito nella piaga: «L’individualismo è a-cristiano, ce lo dobbiamo dire. Questo pilastro, trasportato sul piano politico, ci fa capire tutti i pericoli della cultura capitalistica. Solo una società che si prende cura dei più deboli si fortifica», dice il deputato formatosi nelle fila di Sant’Egidio. Le sensibilità sono diverse. Ma nella sala della Domus Mariae intitolata a Vittorio Bachelet il confronto non fa paura. Perciò quando Paola Binetti dice che «la democrazia è inconciliabile con l’autocrazia», aggiungendo però che «non esiste un “noi” senza che ci sia un “io” forte», la platea capisce, applaude. C’è la consapevolezza, insomma, che il bipolarismo ha “giocato” troppo con i valori, sfidando il buon senso, assolutizzando posizioni, strumentalizzandole per coprire vuoti politici.

Ciani deputato nel centrosinistra che però non ci sta quando «sulla vita mi dicono che sono di destra», Binetti già parlamentare di centrodestra che invita a ripartire dai bisogni concreti delle persone, su cui «non si possono fare astrazioni». E poi c’è un altro modello, quello proposto da Giuseppe Irace, segretario di PER le Persone e la Comunità, rete politica che ha raccolto e spinto all’impegno politico in Campania persone formatesi in associazioni e movimenti ecclesiali. «È vero che non c’è l’obbligo per i cristiani di stare insieme, ma non esiste nemmeno il divieto», scherza ma non troppo Irace, che nel panel dei relatori più si spinge sull’ipotesi di un contenitore autonomo, più “identitario”. Irace è per il proporzionale e «contro l’abominio di questa legge elettorale», ma allo stato, con questo sistema di voto, «bisogna scegliere una parte, e la mia parte è dove non stanno i cugini italiani di Trump». Il dibattito quindi entra nel vivo. Con il relatore oggettivamente più atteso, Ernesto Maria Ruffini, ex direttore delle Entrate considerato prossimo all’impegno politico diretto, che dà indizi sulla sua prospettiva. «In Europa lo spartiacque - rispetto alle destre trumpiane e muskiane - è il Ppe. In Italia questo spartiacque non è stato tracciato e si rischia di sdoganare una destra che non crede nei nostri stessi valori. Anche il “noi” va circoscritto nel momento in cui Trump con un tratto di penna cancella aiuti in tutto il mondo. C’è una rischiosissima contrapposizione tra democrazia e libertà», dice Ruffini. In Italia il Ppe, è noto, è rappresentato da Forza Italia. Ruffini sembra chiamarla in causa senza citarla. Così come l’aveva chiamata in causa poche settimane fa parlando di «coalizione Ursula» anche in Italia. Questo vuol dire che ci vuole un contenitore popolare di centrosinistra autonomo che parli con le forze europeiste? Ruffini non entra nel dettaglio, però prova a bloccare sul nascere il lodo-Franceschini, quello che prevede un centrosinistra che corre diviso per poi sommare i voti dopo le elezioni. «Così si vince, ma non si governa», è la sua netta bocciatura. Stop sul nascere, insomma, all’«armata Brancaleone».

Nell’anomalo San Valentino dei 400 amministratori, a dare una cornice ai discorsi molto politici dei suoi compagni di palco è Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà. Parole concrete: no all’«idiozia» dei leaderismi, no ai «nazionalismi», sì all’Europa, progettualità politica per quell’«universalismo» dei diritti sociali che il Paese sta perdendo, ricucire tra partiti e corpi intemedi. Insomma, dice Vittadini, riparare ai danni della Seconda Repubblica. Ma adesso, non domani.

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