Ora ci sono anche le prove fotografiche. Le motovedette di Bija, il boss di Zawyah sospettato di crimini contro i diritti umani dalla orte penale dell’Aja e sottoposto al blocco dei beni da parte dell’Onu, sono tornate a lavorare a pieno regime. Ufficialmente si occupano del traffico di migranti, in realtà sembrano coltivare gli interessi di sempre. Grazie anche al denaro sonante pagato da Italia e Ue.
Come mostrano alcune foto aeree ottenute da Avvenire, lo scorso mercoledì dopo che la Sea Watch aveva soccorso 53 migranti, i miliziani di Bija anziché pensare ad affondare il gommone dei migranti, si sono dati da fare per recuperarne il motore. Le immagini mostrano alcuni uomini armeggiare sulla poppa del gommone da cui poi sparisce il potente motore Yamaha montato dagli scafisti. I "guardacoste", tutti in jeans, magliette colorate, scarpe da spiaggia e nessuno che abbia addosso una divisa che lo renda identificabile, sono piombati sulla scena con la motovedetta "Talil 267", a bordo della quale è stato più volte avvistato lo stesso Bija (qui di seguito una foto tratta dall'intervista ad Amedeo Ricucci nel 2017).
Il natante si riconosce anche per il vecchio mitragliatore di fabbricazione sovietica con cui Bija ha sparato in passato alle navi delle Ong. Dall'aereo Colibrì di Pilotes Volontaires che pattughlia il Mediterraneo in coordinamento con Sea Watch, hanno potuto fotografare l'arrivo della motovedetta da Zawyah e le fasi successive.
Nell’ultimo rapporto che la procura presso la Corte penale internazionale dell’Aja ha depositato al Consiglio di sicurezza dell’Onu viene accusata proprio la gestione dei migranti a Zawyah, il feudo di Bija, dove con la complicità delle istituzioni libiche ai migranti viene inflitto un «trattamento crudele, inumano e degradante», si legge nel dossier consegnato al Palazzo di Vetro lo scorso 8 maggio.
Dunque tutte le potenze impegnate direttamente o indirettamente nel conflitto libico sono al corrente su quale sia la reale situazione sul campo e in che modo in Libia vengano realmente usati i fondi internazionali. Accuse che si riferiscono sia agli abusi nei centri di detenzione «gestiti da autorità statali come il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale», sia ai lager «usati dai contrabbandieri e dai trafficanti per ospitare i migranti nelle diverse fasi del viaggio». Le investigazioni dell’Aja hanno permesso di accertare violazioni sistematiche specialmente «a Misurata, al-Zawiy7ah, Tripoli e Bani Walid».
Gli accordi tra Tripoli, Roma e Bruxelles prevedono che entro il 2023 vengano spesi 285 milioni di euro per la cosiddetta guardia costiera libica e il suo coordinamento. Due anni fa, il 20 marzo del 2017, il premier libico al-Sarraj aveva presentato al governo italiano la lista della spesa. Un preventivo che anche l’attuale esecutivo non ha messo in discussione e che si avvia a venire riconfermato fin dai prossimi giorni con un nuovo voto in Parlamento.
La richiesta, a suo tempo, era di 10 navi per la ricerca di migranti, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari, tute da sub, binocoli diurni e visori notturni, bombole per l'ossigeno e altro equipaggiamento per un valore non inferiore a 800 milioni di euro. Le consegne sono già cominciate. Ma nessuno ha visto miglioramenti nella condizione dei diritti umani, né una rivincità della legalità sulla criminalità politica che fa di Tripoli la migliore tortuga al mondo per i pirati di uomini. La fortuna di gente come Bija che ha imparato a farsi pagare due volte: dai migranti per poter scappare, e dall’Europa che chiede a quelli come lui di poterli fermare.