Anche nel
Mestiere delle armi c’era una trincea. Era quella verso la quale nel 1526 cavalcava spavaldo Giovanni dalle Bande Nere prima di essere raggiunto alla gamba da un colpo di cannone. La ferita, l’infezione, la morte e infine l’auspicanza, puntualmente registrata da Pietro Aretino, «affinché mai più venisse usata contro l’uomo la potente arma da fuoco». Nobile proposito, ma purtroppo nobilmente inutile. Per il suo nuovo film, che arriva a tredici anni di distanza dal
Mestiere delle armi (in mezzo ci sono stati
Cantando dietro i paraventi, Centochiodi, Il villaggio di cartone), Ermanno Olmi sceglie un’altra guerra, un’altra trincea. Dalla quale, questa volta, lo spettatore non esce mai, prigioniero della notte e della paura come il Delirante, il Soldato Topino, il Dimenticato e gli altri militari senza nome protagonisti di
Torneranno i prati, nelle sale da giovedì 6 novembre. Un film contro la guerra, certo, come
Il mestiere delle armi, e anche un apologo sul perdono, come già
Cantando dietro i paraventi. C’è, inoltre, la memoria dell’Italia dialettale e contadina che Olmi aveva celebrato nell’Albero
degli zoccoli. Ma se nel capolavoro del 1978 l’orizzonte del racconto coincideva quasi perfettamente con un manzoniano abbandono alla Provvidenza, oggi lo sguardo di Olmi si sposta verso il giaciglio su cui patisce Giobbe e che nel frattempo si è trasformato nelle brande in cui i soldati dormono con un occhio solo. Da dove verrà la morte?, si domandano. Dalla fessura fra le travi, su nel soffitto, oppure dal ronzio nella roccia, segno inequivocabile del fatto che gli austriaci stanno minando la postazione? Come Giobbe, anche i soldati ingaggiano contesa con l’Altissimo, lo accusano di essersi dimenticato di loro («Non ha ascoltato suo Figlio sulla croce, vuoi che ascolti noialtri?»), non trattengono una bestemmia davanti alla carneficina, ma intanto lasciano che il Cappellano, uno di loro, assol- va e benedica. Giobbe grida. Per essere perdonato, se possibile. Perché la sua pena non sia dimenticata. La trama, essenziale, si svolge in tempo reale. Inverno del 1917, un avamposto italiano in quota sul fronte nordorientale, sull’Altopiano di Asiago caro a Mario Rigoni Stern (presenza riconoscibilissima nel clima del film) e che la fotografia curata da Fabio Olmi, figlio del regista, restituisce in tutta la sua dolente bellezza. Una notte arriva il Maggiore (Claudio Santamaria), al quale è stato affidato il compito di far eseguire un ordine impossibile. Lo sanno tutti, che sotto il tiro dei cecchini non si possono coprire i dieci passi che separano la trincea dal rudere indicato dagli Alti Comandi. Qualcuno ci prova, qualcun altro, piuttosto che farsi impallinare, prende il moschetto e si ammazza da solo. È lo stesso spunto della
Paura, la novella di Federico De Roberto (1921) che di recente è stata rielaborata da un altro regista italiano, Leonardo di Costanzo, per uno degli episodi del collettivo
I ponti di Sarajevo. Il resto viene dai racconti di guerra del padre di Olmi, al quale il film è dedicato. Il resto, anzi, è un commento alla frase di Toni Lunardi, l’attore-pastore che il regista volle protagonista dei
Recuperanti nel lontano 1970: «La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Il Maggiore torna a valle con il Capitano (Francesco Formichetti) che ha rinunciato al grado pur di non mandare più i suoi uomini a morire. Il comando passa al Tenentino appena arrivato (un intenso Alessandro Sperduti), più a suo agio tra le astrazioni della filosofia che tra lo spavento e il sangue dei combattimenti. C’è un Sergente (Domenico Benetti) che prova a tenere botta quando gli austriaci bombardano la prima volta, ma arriva la seconda tornata e in trincea i morti sono più dei vivi. Solo allora viene notificato l’ordine di ripiegare da una postazione che, pochi minuti prima, era considerata irrinunciabile. Scorrono le immagini di repertorio di una guerra ormai vinta e già entrata nel mito, e tocca all’Attendente (Camillo Grassi) tirare le fila: quando tutto sarà finito, dice, quando anche qui torneranno i prati, della nostra pena non resterà più niente, neppure il ricordo. Solo in questo momento lo spettatore si rende conto di un dettaglio. Gli oggetti di scena non sono, in effetti, oggetti di scena. Lettere e fotografie, lampade e gavette, gli stessi fucili sono cimeli della Grande Guerra, reperti di una memoria non ancora smarrita. E che il cinema, con un film come questo, riesce a rendere indelebile.