
Anna Bonaiuto (a sinistra) e Irene Petris in una scena di “Too Late”, dramma scritto dal norvegese Jon Fosse - Federico Pitto/Teatro Astra
Indagare dentro se stessi e togliere la polvere intorno all’anima per ritrovarne l’originario bagliore, quello che riaccende la propria vita. Cosa c’è di più intrigante e pericoloso? È il lavoro che Jon Fosse impone ai robusti personaggi delle sue opere letterarie e teatrali. Ma è proprio attraverso la rappresentazione scenica che lo scrittore, drammaturgo e poeta norvegese, Premio Nobel nel 2023, può dare una forma visibile e concreta all’“indicibile”, ovvero a ciò che, per ruvida convenienza, per incapacità o perché oggettivamente ineffabile, non è in grado di irrompere nelle relazioni con gli altri, generando un’arida solitudine priva di prospettive.
Questa ricerca del profondo sé, nel tentativo di capire la propria epifania, è anche il crogiuolo di Nora, la protagonista di Too Late, lo spettacolo andato in scena martedì sera in anteprima nazionale al Teatro Astra di Torino (dove è in cartellone fino a domenica), un atto unico di 70 minuti ideato da Thea Dellavalle (che ne cura la regia) e Irene Petris e prodotto dal Teatro Nazionale di Genova e dal Tpe (Teatro Piemonte Europa). Si tratta dell’adattamento di un libretto che Fosse scrisse undici anni orsono per l’omonima opera lirica, mai rappresentata in Italia, con musiche della cinese Du Wei, classe 1978, molto conosciuta nel suo Paese e in Norvegia. Ma nella versione vista a Torino (e che andrà in tournée nella prossima stagione, nelle principali città), la trama diventa puro teatro, una sorta di innovativo e contemporaneo “dramma da camera” (anche se manca l’unità di tempo), una Kammerspiel che richiama esplicitamente Ibsen, evoca Beckett e, per certi toni d’ironia, anche Cechov, alcuni degli autori di formazione del sessantacinquenne scrittore scandinavo, convertitosi nel 2012 al cattolicesimo e arrivato – non a caso – alla drammaturgia quando era già un autore affermato di romanzi, racconti e poesie.
Too late è una specie di sequel di Casa di bambola, in cui si immagina Nora (una perfetta e raffinata Anna Bonaiuto) ormai anziana che riflette, inquieta e dubbiosa, sulla sua vita dopo “il grande passo” fatto quarant’anni prima lasciando la casa, i tre figli e il marito «bellissimo ma non brillante, e anche un po’ stupido». Una scelta di ribellione per non essere più ingannata da chi aveva amato e dedicarsi finalmente alla pittura. Nora ricorda e, mentre dipinge, davanti a sé scorrono come fantasmi lei da giovane (Irene Petris), l’Uomo (Giuseppe Sartori), l’Ombra o la coscienza beffarda e insolente di lui (Emanuele Righi), una Ragazza che è l’amante del marito (Roberta Ricciardi), e forse a tratti anche Nora nell’età migliore. I personaggi non hanno nomi: potremmo essere noi, o qualcun altro. La scena (di Francesco Esposito) è minimale: l’ampia camera matrimoniale di un appartamento borghese con un letto ben illuminato dove i personaggi appaiono e scompaiono da sotto il piumone grazie a una botola nascosta sul pavimento, per ripiombare poi in scena all’improvviso uscendo da una delle porte della stanza. Sul comodino una radio ogni tanto riecheggia i racconto di Casa di bambola. Sulla parete in fondo, una scala, un dipinto e, accanto, sopra un tavolo, pennelli e barattoli con i colori per la pittura. Il suono, del compositore e sound designer Franco Visioli (Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia del 2020), è quasi una drammaturgia a se stante. L’Uomo è doppio, bugiardo e ipocrita, dice delle cose ma pensa l’esatto contrario, chiede baci e abbracci alla moglie, ma come lei è stanco della solita routine familiare. Ognuna delle tre donne è un riflesso di Nora, uno spettro carico di gesti, abitudini, ossessioni e speranze frustrate.
La Nora di Jon Fosse – come quella di Ibsen definita nella sua opera «lodoletta, bambola da portare in braccio» – comunica una sensazione di prigionia che genera un bisogno di liberazione, alla stregua del protagonista del racconto Il bagliore, che guidando senza sapere dove andare imbocca un sentiero sterrato, rimane con l’auto bloccata nel fango e si avventura nella foresta, ghermito dal buio e dalla neve, rischiando di morire assiderato. Così, costretto da una circostanza che pare senza sbocchi, il temerario automobilista ricorda e riflette: «Rimango dove sono e ascolto il silenzio, ed è come se il silenzio mi stesse parlando». Anche qui aleggiano – ma in mezzo all’amato paesaggio nordico – fantasmi che, forse, sono proiezioni di sé. E, alla fine, l’uomo sperduto nella natura si riduce a «un nulla che respira».
Allo stesso modo, la casa di Nora, dove i figli piccoli strillano e giocano da soli nella loro cameretta, è una gabbia dove si può solo camminare avanti e indietro ed entrare negli armadi a muro zeppi di cose e vestiti. Una prigione dove esiste solamente il dovere e si sente il tonfo di una porta che si chiude. In Too late trionfano la nostalgia dell’amore e i suoi paesaggi interiori, come nella piéce E non ci separeremo mai, del 1994, la sua seconda opera teatrale delle 26 scritte finora, dove un’altra coppia vive una crisi che sembra senza soluzione. Il testo inedito trattato da Dellavalle e Petris assomiglia, per la tematica attualissima e l’equilibrio tra realismo psicologico e teatro dell’assurdo, a La ragazza sul divano, che il 5 marzo del 2024 fu rappresentata in prima nazionale sempre a Torino, ma stavolta al Teatro Carignano, con la direzione e l’interpretazione di Valerio Binasco. Finali aperti. Mentre lo stile della potente prosa di Too Late è quello da composizione musicale proprio di certi romanzi di Fosse, con un ritmo dettato da brevi battute, quasi sincopate, interruzioni, ripetizioni, pause e silenzi che consentono una più facile fruizione da parte dello spettatore messo nella condizione di assimilare i sentimenti e cogliere meglio l’evoluzione delle storie interiori narrate. «Il ritmo è un segreto e bisogna sentirlo – dice Fosse – e per quanto riguarda le ripetizioni... sono come quelle della Messa in latino e delle liturgie cattoliche: ripetendo ti fermi davvero a pensare a quello che dici (e che ascolti, ndr) e a dare significato anche ai silenzi».