sabato 29 marzo 2025
L’artista è presente con “Memory of Becoming” alla Biennale di arti islamiche di Gedda, in Arabia Saudita, unico italiano invitato: «La magia dell’arte non sta nel rompere le regole ma nel superarle»
Arcangelo Sassolino, “Memory of Becoming”, installazione alla Biennale di Gedda

Arcangelo Sassolino, “Memory of Becoming”, installazione alla Biennale di Gedda - Ginevra Formentini

COMMENTA E CONDIVIDI

Un monumentale disco nero, di otto metri di diametro e coperto di olio industriale, ruota lentamente sul suo centro. Il movimento è il suo equilibrio: è il tempo esatto della sua rotazione che mantiene l’olio aderente sulla superficie, se fosse più veloce schizzerebbe dai bordi; se invece il movimento cessasse, in pochi minuti crollerebbe interamente a terra. Contemporaneamente, però, la superficie del disco è in continuo mutamento, grazie alla combinazione delle forze di attrito, rotazione e gravità. Ma alcune gocce sono destinate comunque a cadere, in una lenta dissipazione. È Memory of Becoming, l’opera che Arcangelo Sassolino ha portato alla Biennale di arti islamiche di Gedda, in Arabia Saudita, unico italiano invitato. L’opera, con felice intuizione del curatore Muhannad Shono, è allestita accanto al castone d’argento della pietra nera della Ka’ba – attorno alla quale, alla Mecca, girano vorticosamente migliaia di persone avvolte in teli bianchi. È un lavoro semplice e potente, come tutta l’opera dell’artista, in cui l’alto tasso tecnologico è essenziale per dare corpo a una esplorazione dei temi dell’esistere. Se storicamente le sue sculture esplorano la meccanica della materia fino alla rottura, negli ultimi tempi si è affiancata una ricerca sulla fluidità della trasformazione. Il suo lavoro, per altro, sta ricevendo sempre maggiore consenso all’estero: Sassolino sarà protagonista dal 7 giugno prossimo al 6 aprile 2026 di una personale al MONA_ Museum of Old and New Art di Hobart, Tasmania (Australia), nella quale ritornerà, in una nuova versione, l’installazione del Padiglione di Malta alla Biennale di Venezia del 2022, un omaggio a Caravaggio, in cui gocce di acciaio fuso a 1.500°C colavano dentro nere vasche d’acqua, dando vita a effimeri, drammatici momenti di luce.

Memory of Becoming, di per sé priva di connotazioni “sacre”, è collocata in un contesto prettamente religioso che ne indirizza la lettura. Nell’ultimo Panorama di Italics, nel Monferrato, una sua scultura era collocata nella cappella dell’ex Cottolengo di Camagna: un’incudine appoggiata sopra un tavolo di vetro che, in quel luogo, finiva per evocare una sorta di altare. Nel suo lavoro, non di rado interpretato su un piano solo tecnologico e industriale, lei riconosce invece un elemento spirituale?

«Lo riconosco profondissimo. Ciò che faccio credo sia un continuo cercare di capire chi sono come individuo nel mondo e di coniugare questa coscienza di esistere con la realtà. Mi fa molto piacere che i miei lavori diventino in qualche modo metafora della condizione umana. C’è una povera lastra di vetro che deve sostenere questa massa e non si sa per quanto tempo riuscirà a farlo. È una sintesi dell’incertezza di questo momento storico, ma è anche una riflessione sulla vita, sul fatto che tutto è destinato a finire, a diventare altro. Dunque, la questione dello spirito è fondamentale».

È qualcosa che, a suo avviso, c’è fin dall’inizio nel suo lavoro?

«Sicuramente, ed è ciò che ti spinge a diventare un artista. È una cosa più forte di tutto. La mia carriera sembrava fosse indirizzata in una certa direzione e poi invece ho capito che sarebbe diventata la scultura. Ed era in qualche modo più forte di me. Non voglio sembrare retorico, però ciò che succede è che nel tempo, maturando, lavorando, sconfinando in nuovi territori senza accontentarsi o prendere scorciatoie, affini la tecnica e la riflessione. Capisci ciò che è davvero tuo. Del resto non possiamo essere niente di più di quello che siamo».

Nella tradizione la scultura è l’arte dello spazio che cancella il tempo. La sua invece è fondata essenzialmente sul tempo: un tempo per noi indeterminabile ma in sé determinato, perché la rottura o la trasformazione certamente si compirà.

«Mi sento profondamente uno scultore, mi sento fortemente legato alla magnifica tradizione italiana della scultura. Trovo quel piccolo saggio di Arturo Martini, Scultura linquesto morta, un giro di boa fondamentale. La magia dell’arte non sta nel rompere le regole ma nel superarle. Le epoche, la società, la conoscenza cambiano e gli artisti agiscono come filtri all’interno di un momento storico. Così regole fondamentali per un tempo preciso possono o devono essere superate in un altro. Ecco per-ché è molto più facile capire ciò che è stato fatto nel passato, mentre l’arte del presente è in divenire. È come se fossimo un battaglione lanciato là fuori e qualcuno avrà la fortuna, forse, di avere sintetizzato il nostro tempo con immagini che restano. Questo lungo preambolo è per dire che io non riesco più a concepire la sculgua tura come qualcosa di fisso, di solido. Ma se mi guardo indietro, vedo che la storia è costellata di sculture in marmo, in bronzo, in acciaio, in legno che parlano anche di tempo. E io questa ossessione la avverto fortissima. Mentre noi stiamo discutendo, stiamo già diventando altro. Io sento la necessità di mettere tutto dentro i materiali. Ho bisogno che quello che vediamo porti una traccia di ciò che è stato un attimo prima e di ciò che diventerà. A volte il tempo è più esplicito, come qui a Gedda. Altre volte è impercepibile, ma allo stesso modo presente. In quell’altare, mi piace pensarlo come un altare, nella cappella nel Monferrato c’è una desinenza diversa di uno stesso approccio alla scultura, perché in quell’opera, per quanto silenziosa, invisibile, c’è un’azione in corso».

Come è nata Memory of Becoming?

«Nei miei lavori, ogni 4-5 anni, c’è come un giro di boa. Con l’installazione alla Biennale di Venezia ho trovato che fosse importante per me l’idea di trasformare in liquido un materiale così solido come l’acciaio. Perché in quel caso avevo mostrato qualcosa di transitorio, qualcosa che era buio, solido e che diventa luce per un attimo. E che è destinato a tornare dentro il buio. Per me è come se la scultura diventasse un fluido e si portasse dentro un tempo. Ciò che vediamo nel disco è una continua memoria di quanto è appena stato ma è già superato, un’onda incalzata, coperta da altra materia destinata a sua volta a diventare memoria, a essere altro in questo caos».

È un’opera che porta in sé un problema allo stesso tempo di trasformazione e conservazione. Qui la durata è garantita dal cambiamento. La staticità, il “per sempre”, sarebbe la sua morte.

«È così. Ma questo aspetto di possibile fallimento mi interessa molto. Se si fermasse l’energia che tiene in equilibrio questa massa, dopo pochi secondi il disco diventerebbe letteralmente un pianto di materia. È una possibilità. Con l’arte metti in scena qualcosa. In quel senso non puoi uscire da certi archetipi classici. Per quanto tentiamo di sconfinare nel futuro, siamo dentro a una scatola teatrale».

C’è un tempo mitico nei suoi lavori?

«Be’, vorrei che fosse così».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: