
La poetessa e scrittrice venezuelana Jacqueline Goldberg - foto di Antonello Serino
«Come ci sentivamo? Non è una domanda, / è un dolore». Jacqueline Goldberg ha un senso forte della pausa, dell’aforisma e della sentenza nella sua poesia, che caratterizza in modo alto la sua raccolta Noi, i salvati. Testimonianze di sopravvissuti alla Shoah rinati in Venezuela, edita da Valigie Rosse (pagine 178, euro 16,00) e tradotta da Flavio Fiorani. Il libro attinge all’archivio delle interviste audiovisive ai 120 sopravvissuti alla Shoah, tra cui il padre di Goldberg, approdati in Venezuela. Sono conservate presso la Usc Shoah Foundation -The Institute for Visual History and Education fondata da Steven Spielberg. Noi, i salvati, che declina in modo originale l’espressione coniata da Primo Levi, è una vera e propria prova di quella che è stata chiamata “poesia documentale”, che rappresenta un nuovo modo di trasmettere la memoria, e al tempo stesso una Spoon river di quelli che sono rimasti vivi e, dopo la terapia dell’oblio e quella successiva della memoria, diventano, uno per uno, nome per nome, voce anche di quelli che non ce l’hanno fatta. Prendiamo la composizione “David Rotker”: «La gente ascolta le notizie e non ci crede, / fanno finta di non vedere. / A quel tempo non si sapeva cosa fare, / uno non poteva prendere il bastone del migrante. / I miei non volevano andar via. / Per questo mia zia si è salvata e loro no».
Goldberg è nata a Maracaibo nel 1966 e ha pubblicato opere di poesia, narrativa, saggistica, testimonianza e di letteratura infantile, tradotte in più di quindici Paesi. Il suo libro per l’infanzia Pitchipoi, pubblicato nel 2019, racconta del padre e della Shoah. Nelle sue poesie si sente spesso l’eco di quella voce paterna e, a scandagliare con attenzione, quella dei bambini e degli adolescenti che erano, i testimoni, al tempo della deportazione. In Italia per promuovere il suo libro, Goldberg è stata invita a due incontri alla Ca’ Foscari di Venezia e a Firenze, in Palazzo Medici Riccardi, su invito della Città metropolitana e della Fondazione Ambron Castiglioni, con gli interventi, tra gli altri, della storica Marta Baiardi e del curatore dell’opera Fiorani.
La Shoah è il punto più basso della storia dell’umanità. Come preservarne e trasmetterne la memoria?
«Custodire e trasmettere la memoria è un gesto imprescindibile in ogni tempo. Le modalità però variano. Più di mezzo secolo fa nessuno immaginava che si potesse fare memoria della Shoah con il cinema, la letteratura di finzione, la poesia. Oggi ci sono discorsi diversi per un pubblico che è cambiato nel tempo. E ciò contribuisce a rendere la memoria oggetto di interesse per un pubblico che, mi auguro, sia sempre più ampio».
Come vede la situazione in Israele e Palestina. Come ne parlano gli ebrei del Venezuela? C’è un punto di vista sudamericano?
«I rapporti con Israele sono stati e saranno sempre molto complessi. Soprattutto perché noi venezuelani viviamo molto lontano da quell’area del mondo. Il fatto drammatico è che il conflitto israelo-palestinese è così antico e così specifico che è sempre molto difficile trovare chiavi di lettura efficaci, soprattutto per la comunità ebraica venezuelana. La nostra comunità, che ha sempre aderito ai valori del sionismo, oggi si trova di fronte a uno scenario molto più drammatico e complesso. E ricordo che in Venezuela non c’è rappresentanza diplomatica di Israele, perché sono già 15 anni che non ci sono relazioni tra i due Paesi».
Le contestazioni, come i consensi, alle politiche dell’attuale governo israeliano vengono dall’interno e da chi, a diverse latitudini, ne condivide o ne contesta la linea. Tra le critiche c’è una sorta di uso della Shoah. D’altra parte quello che è accaduto il 7 ottobre ha risvegliato, per crudeltà, la memoria della persecuzione nazista.
«Il 7 ottobre, indipendentemente da ciò che si pensi della politica di Israele, è stato un evento che ha scosso il mondo. Posso dire che siamo in pena per gli ostaggi come per le migliaia di morti causati dalla guerra di Gaza. E aggiungo che è difficile sottrarsi all’idea che tutto questo sia un orrore senza fine, un orrore perpetrato da entrambe le parti in conflitto».
Quali sono i suoi poeti di riferimento? Noi, i salvati sembra una Spoon River dei sopravvissuti rinati...
«Ritorno spesso ad autori che sono stati molto importanti per me e che cito senza alcun ordine di importanza: Paul Celan, Marguerite Duras, Anne Carson, Alda Merini, Rosario Castellanos, Charles Simic, Ted Hughes, Sharon Olds, Alejandra Pizarnik, W.H. Auden, Czesław Miłosz, Samuel Beckett, Clarice Lispector, Margo Glantz, Nelly Sachs, Joseph Brodsky, Gertrud Kolmar, Else Lasker-Schüler, Ósip Mandelstam. E anche poeti del mio Paese come Rafael Cadenas, Ida Gramcko, Juan Sánchez Peláez, Luz Machado, Enriqueta Arvelo Larriva, Vicente Gerbasi, Antonia Palacios, Yolanda Pantin. Per me è un onore che nel citare il mio libro si faccia riferimento all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. L’ho letta molti anni prima di scrivere Noi, i salvati, ma solo di recente mi sono resa conto dello stretto rapporto tra i due libri. Di certo, pur inconsciamente, il mio libro si è ispirato ad esso. È altrettanto certo che allora non ho pensato a metterli in relazione perché le voci del mio libro appartengono a persone viventi. In futuro, quando tutti i sopravvissuti saranno voci scomparse, forse il rapporto tra i due libri sarà ancor più stretto».
Lei ha utilizzato diversi registri di scrittura nelle sue opere. Perché ha sentito il bisogno di utilizzare il registro poetico in Noi, i salvati?
«Le voci dei sopravvissuti erano troppo cariche di emotività, di silenzi, di dubbi e di lacrime: era inevitabile che la loro lingua e il loro spazio naturale fosse la poesia. Viene dopo tre libri scritti inizialmente in prosa narrativa, ma ho sempre avvertito la necessità di situare quelle voci in un terreno più diafano, più conciso e intimo come quello della poesia».
La sua ricerca continua. A cosa sta lavorando?
«La mia ricerca finirà il giorno in cui non ci sarò più. La Shoah è un tema su cui c’è ancora molto da dire. Oggi sto lavorando a libri per l’infanzia, alcuni dei quali con storie di sopravvissuti. Lavoro sempre a un libro di poesia e a un altro che attende di trovare un editore».
C’è una cura commovente a preservare l’unicità di ogni nome. È anche una domanda in questi tempi di contatti brevi, in cui gli altri si sostituiscono per quel che servono o non servono più.
«Il nome proprio è la nostra identità, un ritratto. Solo il nome proprio dei sopravvissuti, con la loro sonorità e singolarità, poteva fornire informazioni che altrimenti sarebbero parse eccessivi nei testi: origine, genere del testimone, stato civile nel caso delle donne. Credo che sia molto importante che si continui a parlare della Shoah. Il mio Noi, i salvati è un libro di poesie che “estrae” le testimonianze e, in poche frasi, fa conoscere la storia dei sopravvissuti alla Shoah che fecero del Venezuela la loro terra. Perché il Venezuela, diciamolo, fu una terra che accolse molto bene fin dall’inizio gli ebrei che scappavano dall’Europa e anche dall’Olocausto».
Venezuela che ha accolto Ania Fuchs in Horszowski ma non il bambino che per poco ha tenuto in braccio: «Le giovani madri lasciavano i loro neonati / convinte che qualcuno li avrebbe raccolti. / O convinte di salvargli la vita. / Erano convinte? / Ho tenuto il bambino tra le braccia / qualche minuto, non molto. / Non piangeva, non ho visto il suo viso. / Forse l’ho visto, non ricordo. / Poi è arrivato uno della Gestapo, / ha detto di mettere il bambino in terra. / Non so come ho fatto».