
Rocco Chinnici - WikiCommons
Il salto di qualità della mafia contro gli uomini dello Stato fu contrassegnato dalla quantità di esplosivo impiegata per “eliminare” Rocco Chinnici. La morte di questo magistrato coraggioso, apripista della moderna lotta contro il crimine organizzato – a lui si deve la stessa ideazione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso – avvenne con l’esplosione radiocomandata di una Fiat 126 con 75 chili di tritolo, piazzata davanti allo stabile in cui viveva, in via Giuseppe Pipitone, a Palermo. Un’esplosione fragorosa, in cui persero la vita anche i due uomini della scorta, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi, oltre al portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, mentre si salvò, sebbene gravemente ferito, l’autista Giovanni Paparcuri. Era il 29 luglio 1983. L’attentato – per tecnica e, appunto, “quantità” di esplosivo – anticipò di circa dieci anni il fragore devastante delle esplosioni in cui perderanno la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Chinnici, con le sue intuizioni, aveva messo le basi di quel salto di qualità investigativo poi seguìto, con Antonino Caponnetto, dai due grandi magistrati che ne condivideranno anche l’amaro destino. Però di lui si parla meno. A porre rimedio a questa lacuna arriva L’Italia di Rocco Chinnici. Storie su un giudice rivoluzionario e gentile (Minerva edizioni, pagine 224, euro 20,00) a cura di Alessandro Averna Chinnici, nipote del magistrato, nato otto anni dopo l’attentato e oggi ufficiale dei Carabinieri, e di Riccardo Tessarini, attivista dell’impegno civile per la legalità e curatore del blog “Il Cittadino”. Il libro, uscito in occasione del centenario della nascita di Chinnici (avvenuta a Misilmeri il 19 gennaio 1925), porta alla luce il suo ruolo come “padre” della messa in rete delle indagini tra le diverse procure, in modo da adeguare ai tempi la lotta a un fenomeno che si andava avvalendo sempre più di un uso sofisticato delle moderne tecnologie nei movimenti finanziari, con la copertura dei cosiddetti “colletti bianchi”. Nel libro l’uomo e il magistrato «rivoluzionario e gentile» sono raccontati in un intreccio che, come per gli altri colleghi che hanno pagato con la vita il loro impegno, evidenzia come il “movente” risiedesse per loro in un’esigenza esistenziale di giustizia, prima ancora che in un rigore tecnico-professionale. A ciò hanno dedicato la vita, mettendo nel conto di perderla. Il libro è un omaggio corale per tener viva la memoria del sacrificio di Chinnici, da parte di familiari, stretti collaboratori, uomini delle istituzioni, giornalisti in prima linea nella lotta alla mafia, docenti, artisti, familiari delle vittime, semplici cittadini impegnati per la legalità. Oltre che rendere testimonianza al suo lavoro di magistrato questo libro, come la fondazione che porta il suo nome, presieduta dal figlio Giovanni, intende dare continuità a un’altra intuizione che ebbe in Chinnici un precursore: l’importanza del lavoro culturale che portava avanti in parallelo, l’educazione alla legalità, che fu al centro di tante testimonianze portate nelle scuole, nelle università e in incontri di associazioni e circoli culturali. Nella convinzione che «senza una coscienza nuova noi magistrati, da soli, – diceva – non ce la faremo mai».