
Jan Grue - Mathias Fossum/Iperborea
«Ho rubato un pensiero ad Anna Karenina di Tolstoj: le città accessibili ai disabili si somigliano tutte, le città inaccessibili lo sono ognuna a modo suo». Il pensiero rubato è di Jan Grue, scrittore e professore di Sociologia e Geografia umana all’Università di Oslo, autore di La mia vita come la vostra (Iperborea, pagine 230, euro 18,00), un libro che parla di disabilità, ma che non si può ridurre “solo” a questo. Parla, infatti, di fragilità, quindi di vita, di esseri umani, ciascuno con la propria diversità, unicità: «Questo libro parla di diventare un essere umano». Lo fa a partire da due grandi temi: la genitorialità e il linguaggio. Quando Jan Grue diventa padre ritira dalla casa dei genitori uno scaffale di cartelle cliniche. Contengono la sua infanzia narrata «dall’esterno», dai medici che gli hanno diagnosticato a tre anni una patologia neuromuscolare e che da allora lo descrivono come un corpo difettoso, con un futuro limitato. Grue riflette sulle parole dei referti, su come sia strano vedersi descritto in un modo in cui «ogni considerazione positiva è cauta e provvisoria», si chiede chi sarebbe diventato se non fosse nato con una miopatia congenita, se non fosse stato uno che «sapeva camminare, ma non correre», pensa a quanto la memoria possa essere ingannevole, a come i ricordi possano sovrapporsi nella loro entropia, perché – come sosteneva Derrida – «il lettore cambia e quindi cambia anche il testo». Quel cambiamento è un percorso, la ricerca di una lingua nuova che possa raccontare quella storia, possa spiegare cosa significhi vivere in un corpo vulnerabile cercando di «imporre la propria volontà al mondo», con una percezione diversa di sé e della vita vissuta, a partire dal confronto tra essere padre ed essere stato figlio, con un – recita una nota clinica del ‘94 – «bisogno di attenzioni e sostegno consistente ». Questi pensieri aprono a un quadro più ampio, che ha a che fare con lo stigma, che «per Goffman è un’identità negata », ma ha a che fare anche con il rapporto tra società, istituzioni e disabilità, ha a che fare con cosa significhi essere una persona in carrozzina, con l’«imporsi agli altri», con l’essere «esposto alle esperienza morali», talvolta con l’essere trattato come un pacco postale o un problema da risolvere. Grue prosegue analizzando il significato di accettazione, anche nella paura, nella sensazione di mancanza di libertà, in quel bisogno di pianificazione costante anche solo per alzarsi a prendere un bicchiere d’acqua: «La verità – scrive – è che i miei amici possono andare quando gli pare, in un posto dove io non posso seguirli». In questo confronto con la propria fragilità e desideri, contro gli stigmi sociali e le istituzioni, Grue non attinge solo alla sua esperienza, ma al pensiero di Foucault, Borges e alcuni altri. Colpisce la riflessione sulla diagnosi identitaria, su come in un ipotetico cambiamento della diagnosi il corpo talvolta possa restare lo stesso, solo in un modo diverso, e su come il suo non sia un «racconto di sopravvivenza», semmai di quanto ha desiderato, di come l’ha ottenuto, di quanto gli sia costato e di come se lo sia permesso; un racconto sull’essere come gli altri, sull’essere visto, sullo stare insieme agli altri: «Finché ero l’unico a essere come me, anch’io potevo essere normale, o quasi ». Il dolore, ha detto Didion, è un posto che nessuno conosce finché non si prova, e così Grue dice che non supererà mai il «lutto per il corpo che non è stato», ma come spesso accade c’è un “ma”, ed è nella pagine di questo memoir.