venerdì 11 aprile 2025
Nel suo ultimo romanzo, ambientato a Napoli, la scrittrice mette al centro la figura di Ferdinando Palasciano, medico e precursore della Croce Rossa. Finisce in manicomio con una massa di afflitti
Marasco narra la pazzia che corregge il mondo

Benoit Tessier/Reuters

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Quando nell’ultimo romanzo di Wanda Marasco, Di spalle a questo mondo (Neri Pozza, pagine 414, euro 20,00), mi sono imbattuto nel nome dell’Ospedale degli Incurabili fondato a Napoli nel 1521 dalla venerabile «nobildonna» Maria Longo, «vero spirito di misericordia», non ho potuto fare a meno di pensare al titolo di quel bellissimo libro pubblicato nel 1989 da Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, dedicato a Venezia. Che c’entra direte voi? Nulla: se non fosse che Brodskij lo aveva ricavato dall’altro ospedale degli Incurabili, quello che si trova, appunto, presso la Fondamenta delle Zattere allo Spirito Santo nel sestiere di Dorsoduro. Per il resto, nessun’altra consonanza. Poi, però, mi sono ricordato che Cees Nooteboom, nel suo Venezia. Il leone, la città e l’acqua (2019), aveva felicemente lodato le pagine di Brodskij per la rapidità di sguardo con cui tutto ciò che il poeta «vede e pensa viene rielaborato in una tonalità di malinconia». Ecco: anche nel caso di Marasco bisognerà parlare di tonalità: quella che mette subito in musica il dolore irredimibile d’una folla senza nome di storpi e ciechi, vaiolosi e poliomielitici, donne «emaciate», bambini smagriti e «belluini», vecchi che a stento si reggono in piedi. E quel macellaio - cito un altro a caso - «che si rifiuta di parlare», internato «perché ha commesso un delitto efferato». Una tonalità - occorre sottolinearlo - che governa la prosodia d’un romanzo polifonico e polimorfo, nutrito di cultura e letteratura, una tonalità - dico - che non saprei definire altrimenti se non metafisica. In un romanzo in cui, all’improvviso si aprono botole inaspettate. Per dire: cosa ci fanno, a un certo momento, Antonio Ranieri e i resti mortali di Leopardi?

Qui sta il punto: in Di spalle a questo mondo la pazzia s’incrementa di capitolo in capitolo - quella di Ferdinando Palasciano, della madre di sua moglie Olga, nonché ogni oltranza che qui guizza -, epperò non ci viene restituita solo come il positivistico referto d’una patologia, ma soprattutto come un modo di modificare il mondo, di correggerne l’imperfezione. Il delirio, se si vuole, può essere infatti anche una forma di eroismo: soprattutto se è vero che ha il suo controcanto in una paura indomabile e irredimibile, che è sempre - sì - paura di qualcosa, ma che in fondo è sostanzialmente paura di tutto, della stessa vita. Il pensiero - leopardianamente - dominante - diciamolo chiaro - è quello della morte: se è vero che «in manicomio c’erano queste notti incollate al pensiero che il morire non finiva mai». Non sarà inutile aggiungere che la pazzia era già tema cruciale nel libro del 2015 su Vincenzo Gemito («Storia umana marchiata dall’abbandono»), il quale, per altro, ha un ruolo cruciale da subito anche in queste pagine: ovvero dal momento in cui appare con la «lunga barba» e «il corpo che avanzava in una turbolenza dei panni come se si portasse dietro il vento». Ma andiamo con ordine e cominciamo da Ferdinando Palasciano, nato a Capua il 13 giugno 1815, poi rinomato chirurgo ortopedico, ufficiale medico del Regno delle Due Sicilie, uno dei precursori - ma misconosciuto - della Croce Rossa, «il primo a proclamare il principio di neutralità dei feriti», un uomo capace di ribadire con forza, rischiando pure il plotone d’esecuzione, che il suo dovere di medico viene prima di quello di soldato. Lo salverà solo la grazia: ma per trovarsi poi, negli anni che verranno, crocefisso - tra carcere e manicomio - al destino di deietto. È in virtù della sua fama di chirurgo che conoscerà la sua futura moglie «la nobildonna Olga Pavlova Vavilova» di San Pietroburgo, affetta da «una sofferenza al ginocchio» e da una «zoppia nel profondo», legata chissà se a un incidente o a un oscuro trauma. La voce di lei, testimone d’un non diverso deragliamento (verso la rovina o in direzione della salvezza?), è, rispetto a quella del marito, sapientemente giuocata a contrappunto.

Olga non ha dubbi: «Prima di incontrare Ferdinando ero uno scompenso». E sarà ricambiata, nell’amore, con la stessa feroce intensità dal marito. Anche ora che Ferdinando è in manicomio e coltiva disperatamente l’«illusione di tornare alla torre come marito e guaritore». Già, la torre, quel singolare edificio a Capodimonte in cui anche le pietre parlano, ove i due hanno deciso di vivere: la torre sul cui eventuale simbolismo molto si potrebbe dire. Inutile osservare che dentro questo libro ci troviamo anche i grandi attori del Risorgimento, da Mazzini a Garibaldi e Pisacane: compreso il ministro Giovanni Nicotera, amico di una vita di Palasciano. Mi manca da citare almeno il collega Consalvo, «neuropatologo di fama, custode della sua malattia», che ha in cura Ferdinando a villa Fleurent, dov’è appunto ricoverato. Ma occorrerà ricordare anche il pittore Edoardo Dalbono coi suoi dieci dipinti, che avrebbero dovuto essere quindici, e «che ritraevano il Vulcano in eruzione attraverso i secoli»: in cui - dato assai significativo - «proprio la distruzione faceva da luce». Potrei poi menzionare i due fedeli servitori dei coniugi, Carmelina e Isidoro. E non dimentichiamo di parlare di suor Patrizia, la sua devota assistente prima dello smantellamento dell’ospedale. Ma si potrebbe certamente continuare: per prendere infine atto delle escursioni di una lingua che scende e sale altalenante tra inserzioni dialettali e inarcamenti squisitamente letterari.

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