sabato 5 aprile 2025
“L’ultimo sguardo”, il saggio di Stefano Loparco curato da Ilaria Floreano, riaccende i riflettori sulla figura del più grande interprete del nostro cinema. Tra le sue ombre, la morte del fratello
L'attore Gian Maria Volontè (1933-1994) sul set con il regista Francesco Rosi (1922-2015)

L'attore Gian Maria Volontè (1933-1994) sul set con il regista Francesco Rosi (1922-2015) - Bietti Editore

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«Le vent se lève… il faut tenter de vivre», «Si alza il vento… bisogna tentare di vivere». Questo verso dell’amato poeta Paul Valery, è stato il messaggio in bottiglia scolpito sulla sua barca a vela “Arzachena” e poi sulla pietra della tomba del più grande degli attori italiani, Gian Maria Volonté, morto a Florina, in Grecia, il 6 dicembre 1994 (aveva solo 61 anni). Mai dare giudizi definitivi (specie se mastro Goffredo Fofi che, con Marco Bellocchio, per lui scrisse e riscrisse la sceneggiatura di Sbatti il mostro in prima pagina non è d’accordo), però noi navigatori solitari, fuori dalle reti, siamo sempre più convinti, filmografia alla mano e davanti agli occhi, che se Marcello Mastroianni era e forse rimane l’attore italiano più famoso nel mondo del secolo scorso, Gian Maria Volonté è stato il più bravo e quindi il nostro più grande “attore civile” di sempre. Un divo-antidivo, il migliore per camaleontismo artistico. E a dispetto della sue cento anime di celluloide, compresa quella sciasciana, quella di Gian Maria Volonté non fu affatto Una storia semplice. Nella sua vita c’era stato un padre fascista, Mario Volonté, capo della Brigata Nera di Chivasso, che era un senso di colpa difficile da rimuovere. E poi un fratello minore, Claudio, che per linea paterna aveva sposato il cameratismo di destra cacciandosi nei guai dell’eversione (era amico di Stefano Delle Chiaie) fino a una “redenzione”, politica («mi dicono si sia iscritto al Psiup», confidava Gian Maria) e teatrale, dovuta forse solo al grande amore fraterno. Tutto questo sottobosco familiare, ancor prima che il talento incredibile, ammirato e invidiato dalla gente del cinema, rende la sua esistenza davvero un’Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. E ciò che a questo camaleonte davanti alla macchina da presa - tuttora studiato dai giovani attori che inseguono il mito e il segreto del “Metodo Volontè” - riusciva facile e naturale davanti a una cinepresa, non lo è stato affatto nella vita reale. Un’esistenza cominciata in un campo minato di difficoltà ideologiche e finanziarie, pur essendo il primogenito e quindi da subito protagonista di un gruppo di famiglia in un interno borghese.

Il più sciasciano degli attori: sul grande schermo fu due volte Aldo Moro
Ne La valigia dell’attore, titolo haberiano, musica e parole di Francesco De Gregori, che è diventato anche quello del Festival dell’Isola della Maddalena che la figlia Giovanna (nata dalla storia d’amore con l’attrice Carla Gravina) ha dedicato per anni (speriamo riparta) alla figura di papà Gian Maria, sono state proiettate tutte le sue “masche-re”, indossate per essere Michelangelo e Caravaggio in tv. Giordano Bruno, film di Giuliano Montaldo, per cui sempre nei ‘70 era già stato Bartolomeo Vanzetti in Sacco e Vanzetti. Il più sciasciano degli interpreti sarà per due volte Aldo Moro, in Todo Modo di Elio Petri e in Una storia semplice di Emidio Greco. E ancora dal 1970 all’87 per Francesco Rosi presterà volto e anima per essere il tenente sovversivo Ottolenghi in Uomini contro, Enrico Mattei ne Il caso Mattei, Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, il boss dei boss dalla mafia italoamericana Lucky Luciano e infine il dottor Bedoya in Cronaca di una morte annunciata. Ogni volta cambiava espressione, timbro di voce, pettinatura e sguardo, solo gli occhi restavano quelli. «Volonté aveva occhi malinconici, ciglia folte e lunghe li ammantavano di dolcezza. Risplendevano di luce propria… Dentro si vedevano l’argilla, il fuoco, il lavoro, il momento giallo, la luna fragrante e la farina, il tempo e l’arena di Neruda», scrive Ilaria Floreano in una prefazione esemplare al saggio essenziale di Stefano Loparco L’ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté (Bietti, pagine 176, euro 18,00).

Un incredibile "trasformista da set". Cambiava tutto, tranne quegli occhi malinconici
E in quello sguardo, sta la risposta più convincente all’arcano: come un solo uomo sul set abbia potuto vivere tutte le rivoluzioni e le vite dei maggiori ribelli, anarchici, fuggitivi e sognatori? Come ha potuto ogni sua interpretazione diventare scelta civile, presa di posizione politica volta alla verità e ad appoggiare le cause dei più deboli? Per Volonté recitare è stata una «missione », cominciata a 18 anni in una Torino che si interrogava sul suicidio di Cesare Pavese. Debutto: in teatro, nell'Antigone di Anouilh, andata in scena al dopolavoro ferroviario di via Sacchi 65. Per il pupillo del maestro Orazio Costa, quello è stato il battesimo artistico, anno 1951. L'inizio di un cammino in cui il teatro ne fece il portavoce del Movimento del ‘68, che anticipò a Roma con il “Teatro di strada”, esperienza unica e irripetibile ideata con Bruno Grieco, direttore della sede romana della Tass (l’agenzia d’informazione dell’Unione Sovietica). Volonté di quella compagnia di improvvisatori urbani era la “mente” ed Ernesto Bassignano il cantautore e animatore del Folkstudio, “le braccia”, come si legge in uno dei capitoli più gustosi della rivista bianco e nero (Edizioni del csc, n° 610. Euro 22,00). Con il “Teatro di strada” occupava fabbriche provava e allestiva spettacoli nei centri sociali e nelle cantine della capitale.

La tragica storia di Claudio, il fratello che disperatamente seguiva la sua scia
E in una di quelle catacombe del pensiero libero Volonté stava andando in scena con Il vicario, dramma del berlinese Rolf Hochhuth, pubblicato in Italia da Giangiacomo Feltrinelli, adattamento teatrale di un altro ribelle delle scene come lui, Carlo Cecchi. Pièce ferocemente criticata perché denunciava il sospetto antisemitismo di papa Pio XII, bollata come «pericolosa», dai perbenisti imperanti di quella «piccola borghesia» che Volonté ha sempre combattuto a muso duro, così come il pistolero Ramón Rojo affrontava i nemici in Per un pugno di dollari di Sergio Leone. Chi come Loparco e Floreano hanno frugato a lungo tra le pieghe di quell’anima di hombre vertical, sa che c’è stato un uomo Volonté “pre” e uno “post 77”. Perché quello è un anno in cui anche il titolo dell’unico film che lo vede protagonista, Io ho paura! di Damiano Damiani, va letto come la nemesi di una irreparabile tragedia privata: la morte del fratello. Claudio Volonté, seguendo la scia luminosa di Gian Maria, diventa uomo di sinistra ma soprattutto viene tarantolato dall’arte, dal teatro e dal cinema. Per evitare di sentirsi additato come il “fratello di Volonté” sceglie il nome d’arte di Claudio Camaso e ottiene scritture dai registi Mario Bava, Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli, Lina Wertmüller… I destini dei due fratelli si incrociano pericolosamente nel febbraio del 1965. Il 13 febbraio nel sotterraneo della chiesa sconsacrata in via Belsania, Gian Maria va in scena con Il vicario, ma lo spettacolo, che viola l’art.1 del Concordato (lesivo della sacralità del Vaticano ) viene interrotto dall’irruzione della Polizia che, come scusa, dichiara «l’inagibilità del locale». Quattro giorni dopo quel blitz, il 17 febbraio, l’ombra eversiva ripiomba su Claudio: è il primo indiziato per un ordigno esploso in Vaticano che danneggia il cancello della gendarmeria pontificia, frantuma i vetri degli edifici della Santa Sede, svegliando nel cuore della notte papa Paolo VI. Dopo venti ore di interrogatorio Claudio con i suoi alibi sentimentali verrà rilasciato e scampa a quel carcere dove invece morirà. A Campo dei Fiori, lì dove suo fratello aveva trascorso notti intere a riflettere sul come ardere di passione nell’interpretare il Giordano Bruno di Montaldo, Claudio, ubriaco, durante un litigio con la moglie Vera Beer aveva accidentalmente sferra una coltellata mortale a Vincenzo Mazza, un elettricista che lavorava come comparsa a Cinecittà. Dopo dieci giorni di latitanza Claudio si costituisce e poi si impicca in una cella di Regina Coeli, il 16 settembre 1977. Qualche giorno prima di togliersi la vita aveva lasciato scritto su un quaderno: «L’angoscia fa redigere la speranza. La punizione dal carcere. Della paura. Dei rimpianti. Il ricordo di ciò che si è perduto. Tutto ciò può essere vissuto anche in una chiave armonica. È necessario trovare la strada di una realtà alternativa. Spaziare con l’anima anche se il corpo è imprigionato». L’ultimo bacio poetico a suo fratello Gian Maria, che quel giorno del funerale sembrava molto più vecchio, come sempre, dei suoi 44 anni. Segnato per sempre dalla vita e delle tante vite che aveva recitato entrando nella carne dei protagonisti, ha continuato a navigare fino all’ultimo porto greco di Theo Angelopoulos. E Lo sguardo di Ulisse (il suo “film incompiuto”) oggi per il cinema è diventato quello di Gian Maria Volonté, forse l’ultimo sguardo vero in cui l’uomo e l’attore sono diventati una cosa sola.

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