
Una statua del Buddha tra le macerie del sisma in Myanmar - Ansa
Policrisi. Il termine, coniato dal filosofo Edgar Morin, sintetizza con drammatica efficacia la condizione del Myanmar a due settimane dal terremoto di 7.7 gradi Richter che, il 28 marzo, ha devastato le regioni centrali di Mandalay e Sagaing. Anche le Nazioni Unite lo hanno impiegato. Il sisma non solo si somma alle molteplici emergenze già in atto ma ne diviene la cartina di tornasole. Innanzitutto perché ha dissolto la coltre di silenzio che avviluppa la nazione dal golpe del 2021. Invisibile da quattro anni, sull’onda della catastrofe, il Paese ha conquistato la ribalta mediatica globale. I riflettori, però, sono rimasti accesi il “minimo indispensabile”. In un’informazione ossessionata dalla corsa all’ultima urgenza, il dramma dell’ex Birmania è ormai “storia vecchia”. «Chiediamo al mondo di non voltarsi dall’altra parte – è l’appello di Raif Thill, direttrice dell’ufficio birmano di Azione contro la fame –. Quella del Myanmar è da tempo una delle crisi meno raccontate. Ora il contributo dei media è fondamentale perché il faticoso processo di ricostruzione vada avanti». L’emergenza si profila lunga e intensa – afferma Adrian Guadarrama, alla guida dei programmi di Medici senza Frontiere (Msf) nella nazione –: il sistema sanitario è in ginocchio, farmaci e acqua scarseggiano, incrementando il rischio di diffusione di malattie infettive». Tanto più che da giorni la nazione è flagellata dalle piogge monsoniche. Migliaia e migliaia di famiglie sono costrette a dormire per strada dopo aver perso la casa, rintanati sotto un telo di plastica. E si aggiungono ai 3,5 milioni di sfollati interni nonché ai 4,3 milioni in gravi condizioni di necessità censiti dall’Onu prima del 28 marzo.
La situazione pre-terremoto è fondamentale per capire l’entità della calamità in corso. Quella naturale è stata enorme: ha colpito oltre la metà dei 17 milioni di abitanti dell’area centrale, la più popolata, polverizzando, secondo stime al ribasso, 41mila case, 1.800 scuole, 3.300 templi e strutture religiose. Un numero imprecisato di centri medici e ospedali con relative sale operatorie sono fuori uso, privando mezzo milione di persone delle cure salvavita. Mercati e campi sono devastati e l’insicurezza alimentare cresce. Eppure il disastro sismico rappresenta solo una parte della tragedia. «La scossa ha colpito un Paese dove sanità, educazione e gli altri servizi essenziali erano stati già distrutti dalla giunta», dice Micheal Crosby, direttore della Suu Foundation. Da quando i militari hanno preso il comando con la forza, il Myanmar è precipitato nel baratro del conflitto civile. «Il regime governa meno della metà del Paese: il sud e le città. Il resto è nelle mani di gruppi di opposizione armata espressione delle diverse etnie che compongono il Paese». Un sistema di potere complesso e mutevole che, ancor più della devastazione di strade e infrastrutture logistiche, blocca la distribuzione di soccorsi dal centro. E che spiega il calcolo tutto sommato “contenuto” delle vittime rispetto all’impatto della frustata tellurica: 3.600. La giunta, che ha fornito i dati, non può calcolarli perché riesce a muoversi solo in porzioni limitate della zona interessata. «La risposta umanitaria deve strutturarsi a partire da questo contesto. Per raggiungere i più colpiti, si deve lavorare con i ribelli – puntualizza Crosby –. Solo loro possono, ad esempio, operare nel Sagaing, epicentro della tragedia e bastione della resistenza. Ignorare la realtà sommerà una nuova catastrofe politica a quella creata dal sisma». Anche perché – prosegue – i generali, privi di legittimità internazionale, sono determinati ad utilizzare il terremoto per guadagnare terreno.
I bombardamenti denunciati da fonti umanitarie nonostante il cessate il fuoco dichiarato dopo il disastro, sembrano rientrare in questa strategia. Affinché l’aiuto del mondo sia effettivo è indispensabile operare con creatività e flessibilità. «Noi lavoriamo con un modello misto che unisce l’azione diretta e le partnership locali con organizzazioni di fiducia in zone di difficile accesso, come Sagaing. L’approccio su base comunitaria evita, inoltre, di duplicare gli sforzi e riduce il rischio di esclusione o corruzione», dice Thill. Purtroppo – e questo è il terzo fattore della “tempesta perfetta” –, la macchina locale dell’assistenza umanitaria è ingolfata dallo smantellamento di UsAid. Nonostante i proclami di Donald Trump e la promessa di donare nove milioni, i soccorsi Usa stanno giungendo con insolita lentezza, come rivelato da un’inchiesta del New York Times. Sono stati Cina, Russia, India, Thailandia, Malaysia e Vietnam a inviare immediatamente squadre di emergenza. Mercoledì è arrivato il primo aereo dall’Ue con 55 tonnellate di soccorsi che saranno distribuiti da Cesvi.
Nel frattempo, appena arrivati a Mandalay per coordinare la risposta all’emergenza, venerdì scorso, tre funzionari dell’Agenzia americana hanno ricevuto, via email, la lettera di licenziamento. È la straordinaria mobilitazione civile a impedire, in gran parte, alla nazione di sprofondare nel caos. «Il fatto straordinario delMyanmar è che il golpe ha rafforzato la società – conclude Crosby –: di fronte ai molteplici fallimenti del governo centrale, le comunità si sono rimboccate le maniche e hanno creato dei servizi in autonomia. Una capacità di reazione che sta mostrando anche ora, dopo il terremoto».
Le prime piogge, anticipazione dei monsoni di metà maggio, si sono abbattute sulle migliaia di sfollati che a Mandalay dal 28 marzo vivono in strada. Lo denuncia il “Mandalay catholic emergency rescue team” creato dalla locale arcidiocesi: 20mila battezzati in un territorio che conta quasi 10 milioni di abitanti. Pioggia e vento che, in un Paese con strade interrotte e comunicazioni difficili, accrescono le difficoltà nei soccorsi mentre è iniziato il conto alla rovescia per la stagione dei tifoni.
Intanto a Mandalay tutti i sacerdoti, compreso l’arcivescovo Marco Twin Win, dormono in tende di fortuna dopo che è stata distrutta la casa diocesana. «Il compound della cattedrale del Sacro Cuore, danneggiato dal sisma, è divenuto un rifugio per i terremotati, senza alcuna distinzione di etnia o religione: cristiani, buddisti, musulmani e indù. E i parrocchiani si sono dati da fare per alleviare le sofferenze delle vittime» dichiara a Fides il vicario generale della diocesi padre Peter Kyi Maung. «Da questa sofferenza, un’occasione per un profondo dialogo interreligioso, dato che i buddisti sono la maggioranza» ha aggiunto padre Peter. Altri senza tetto sono nel seminario di San Tommaso, nelle chiese di San Michele e di San Giovanni e nel campo sfollati di Chan Thar Gore, oltre che in campi da calcio e in altri spazi all’aperto. Rifugi di fortuna sovraffollati, ma la maggioranza, temendo crolli e scosse, si sente più sicura per strada. I rapporti del Kmss – la Caritas del Myanmar fatti in collaborazione con Unicef e Onu – indicano che il 70% degli sfollati ha risparmi per una settimana e nessuna scorta di cibo. Se sfamarsi è una sfida quotidiana, l’acqua è la vera emergenza: ci si rifornisce a pozzi e condutture danneggiate dove, senza bagni e strutture igieniche adeguate, il rischio di contaminazione si è accresciuto a dismisura. Una vulnerabilità alle malattie trasmesse dall’acqua già presente prima del sisma e che sarà acuita dall’arrivo de tifoni. «La qualità dell'acqua è un problema molto sentito nelle aree colpite e non ci sono mezzi per controllarla o trattarla a livello familiare o comunitario» spiega Silvia Sinibaldi, vice direttrice di Caritas Italiana. Acqua dal cielo, che può allagare tutto, e acqua contaminata nei tubi, che può innescare una nuova catastrofe. «La vulnerabilità alle infezioni respiratorie, alle malattie della pelle, alla febbre dengue o al morbillo è in aumento. Si teme l'insorgere di malattie infettive, in particolare il colera», è l’allarme di Silvia Sinibaldi.
In meno di due settimane Kmss (Karuna Mission Social Solidarity), in coordinamento con Caritas Italiana e le altre Caritas presenti sul terreno, ha elaborato un piano di risposta che in un anno raggiungerà 50mila beneficiari in 12 località nelle diocesi di Mandalay, Taunggyi, e Taungoo. Un intervento in quattro fasi dal primo soccorso all’avvio della ricostruzione, con l’acqua come tema trasversale.
Per tutto il mese di aprile Caritas sosterrà il “soccorso immediato” ai bisogni primari per salvare vite umane: oltre all’acqua saranno distribuiti cibo, kit igienici e ripari d’emergenza. Da maggio a giungo la seconda fase : “soccorso rapido” e “preparazione ai monsoni” riparando punti d’acqua, istituendo processi di purificazione dell’acqua per mitigare i rischi delle inondazioni. Da fine giugno a settembre la fase di “risposta ai monsoni” per prevenire le epidemie: sono previsti interventi di riparazione dei sistemi idrici e di promozione dell’igiene per evitare la diffusione delle malattie durante la stagione di magra. La quarta fase dell’intervento di Caritas Italiana vuole infine favorire la ripresa ripresa dell’agricoltura, la riapertura dei mercato, riavvio di attività lavorative e soluzioni abitative più stabili.
«Siamo in ascolto e legati alla Caritas e alla Chiesa in Myammar che in questo momento sta dando una grande testimonianza di unità» afferma don Marco Pagniello. Una presenza che è pure un impegno di solidarietà per il futuro: «Noi rispondiamo sempre alle emergenze ma poi se richiesti, una volta spenti i riflettori sul Myanmar, continueremo ad aiutare nella ricostruzione materiale ma anche morale» conclude il direttore di Caritas Italiana.