
Un ritratto recente di Ugo Amaldi - FOTOGRAMMA
«Ci sono voluti dodici anni per convincermi che non ero solo il figlio di Edoardo Amaldi ma che sarei potuto diventare un ricercatore innovativo». A novant’anni, con una lucidità invidiabile e l’umiltà dell’intelligenza, Ugo Amaldi si “confessa” nella villetta di Cologny, quartiere ricco della ricca Ginevra. Protoni strappati dal nucleo e cartine che misurano il fall out degli esperimenti nucleari, diffusione quasi elastica e a piccolissimo angolo, studi sulla supersimmetria delle particelle e su come schermarsi dai raggi X, progetti sui collisori lineari e l’introduzione degli adroni nella lotta contro il cancro…
Oggi pomeriggio, 4 aprile, il Cern celebrerà questa vita per la scienza, ma “il prof” sta ancora lavorando a nuovi progetti. «Le faccio vedere la casa, è grande perché ci vivevamo in sei. E tutto mi parla dei 64 anni vissuti con Clelia». È su di lei che si sofferma subito, e mi porta in cucina. Che è tappezzata da disegni infantili. Cuori, case con grandi tetti, omini e donnine stilizzati. Tre generazioni a colori, tra figli, nipoti e pronipoti. La moglie è scomparsa da un anno, ma lui ne parla al presente. Fa lo stesso del nonno Ugo e della mamma Ginestra. «L’uomo è tetraedrico», racconta. E aggiunge: «Non vedrò mia moglie ma, un giorno, godrò della sua compagnia insieme a quella di tutti coloro che sono vissuti, nell’immensità di Dio. È una prospettiva che anticipa Cristo con la parabola della vedova di sette fratelli e rientra nella mia visione del legame profondo tra realtà fisica, spirito e anima numinosa, che sarà oggetto di un libro dal titolo “Una scienza, due trascendenze”».
Professore, che ricordo ha della guerra?
Quello di un giocatore di baseball che aspettava mio padre in cortile, subito dopo l’ingresso degli americani a Roma, nel 1944. Ero un ragazzino di dieci anni e lui era enorme. Fumava una sigaretta dopo l’altra.
Che ci faceva un giocatore di baseball in cortile?
Lo avevano mandato i servizi segreti americani per chiedere a mio padre cosa sapesse degli studi tedeschi sulla bomba atomica. La guerra sarebbe finita l’anno dopo, con Hiroshima e Nagasaki, e gli Usa avevano fretta. Infatti, molto dopo seppi che un altro americano, mandato da un altro servizio segreto, quella stessa mattina aveva incontrato mio padre all’istituto di Fisica dell’Università di Roma, dove insegnava, e che lui gli aveva consigliato di parlare con Gian Carlo Wick, un fisico teorico molto amico di Heisenberg, il capo dei programmi nucleari del Reich.
Come vivevate negli anni della guerra?
Facendo la fame, come gli altri. E quando c’era qualcosa da mangiare, condividendolo con i collaboratori di mio padre che era rimasto a insegnare in Italia, mentre il suo amico Enrico Fermi aveva dovuto espatriare negli Stati Uniti perché la moglie era ebrea. Mia madre non accettò mai quel “tradimento” - ricordo anche che Laura Fermi era una grandissima amica di mia madre e lavorò con lei pubblicando nel 1936 “Alchimia del tempo nostro” - mentre mio padre sosteneva che Fermi era stato costretto ad andarsene e che se fosse dipeso da lui non avrebbe mai abbandonato la scuola romana di fisica.
Nel 1934 i ragazzi di via Panisperna avevano scoperto la proprietà dei neutroni lenti, che avrebbe portato al Nobel di Fermi. Se ne andarono quasi tutti, tranne Edoardo Amaldi. Riuscì davvero a continuare le ricerche?
Certamente. Tornato dall’Africa, dove aveva combattuto come ufficiale, nel 1940, mio padre all’Istituto superiore di sanità costruì con Ageno e Trabacchi il “tubo”, che era un acceleratore di particelle per la produzione di isotopi radioattivi utili in medicina. Stavano anche studiando la fissione, con Gilberto Bernardini e Mario Ageno, ma decisero di fermarsi solo perché compresero che il regime avrebbe potuto utilizzare le loro ricerche per scopi militari. Intorno a mio padre si era costruito un gruppo simile a quello di via Panisperna: Ettore Pancini, Marcello Conversi e Oreste Piccioni, tra l’altro, fecero un esperimento che Luis Alvarez, nel suo discorso per il Premio Nobel, definì «l’inizio della fisica delle particelle». Nei sotterranei del liceo Virgilio di Roma, dove avevano spostato le apparecchiature dopo il bombardamento di San Lorenzo del 1943, e poi alla Sapienza, studiando i raggi cosmici nel 1946 dimostrarono che la particella che si pensava che fosse causa delle forze che legano protoni e neuroni nei nuclei – il pione di Yukawa – non era altro che una nuova particella identica all’elettrone ma duecento volte più pesante. Quella scoperta dimostrò l’esistenza di particelle diverse dagli elettroni ed aprì la strada che portò al modello standard, completato nel 2012 con la scoperta del bosone di Higgs. Mio padre fu raggiunto dalla notizia mentre era in viaggio in America, lo disse a Fermi che ne riconobbe l’importanza in un famoso articolo scientifico scritto con due colleghi.
Ci parli di quel viaggio negli Usa.
Tutti sanno che si concluse con Fermi che offrì una cattedra all’Università di Chicago a mio padre, il quale rifiutò per proseguire l’insegnamento in Italia. La mamma, ricordando anche la sua contrarietà alla partenza di Fermi per gli Stati Uniti, lo sostenne fortemente in questa decisione. Pochi sanno che vedendoli partire io pensai: che bello se tornassero con un fratellino! Al ritorno dagli Usa nacque Daniela.
Era felice?
A esser sincero scattò subito la gelosia verso quella sorellina. Ma avevo dodici anni.
A dodici anni voleva già diventare uno scienziato?
No. Questa inclinazione si è manifestata lentamente, durante gli anni di liceo al Tasso, dove ebbi un’ottima professoressa di fisica. Quando, dopo la maturità dissi a mio padre che mi sarei iscritto a Fisica, si oppose dicendo “sarà difficile per te affermarti in questo campo nel quale sono piuttosto noto, fai biologia perché sta esplodendo…”. Era l’estate del 52 e l’anno dopo Crick e Watson scoprirono la struttura del Dna. Mi iscrissi alla Sapienza senza dirglielo e, fortunatamente non mi capitò mai di avere Edoardo Amaldi come docente di fisica. Non fu comunque facile affrancarsi dall’immagine di figlio d’arte. Immagini di finire ogni esame con un “e mi saluti suo padre”. La seconda fortuna fu che Mario Ageno, un grande scienziato ed epistemologo, nel 1958 mi offrì una borsa di studio per lavorare al Laboratorio di Fisica dell’Istituto Superiore di Sanità. In quel periodo effettuai il primo esperimento importante. Avevo saputo che due fisici brasiliani avevano scritto un articolo che proponeva di bombardare nuclei atomici con elettroni d’alta energia strappandone i protoni. Proposi di studiare al sincrotrone di Frascati questa diffusione quasi elastica di elettroni sui nuclei: nessuno lo aveva mai fatto. Con Giorgio Matthiae facemmo i conti e, con altri colleghi del Laboratorio, in due anni riuscimmo a misurare le coincidenze tra elettroni e protoni; questo permetteva di determinare come si muove un protone nel nucleo, dicendo molte cose interessanti sulla struttura dei nuclei. Pensai così di passare dal nucleo all’atomo, che è centomila volte più grande e, dopo qualche pomeriggio passato in biblioteca, mi resi conto che neanche questo esperimento era stato mai fatto. Costruimmo allora alla Sapienza, con Guido Pizzella e i suoi collaboratori, un rilevatore per studiare la diffusione quasi elastica degli elettroni di bassa energia sugli elettroni molecolari. Il lavoro ha ispirato moltissime ricerche di fisica atomica e molecolare ed è ancora citato.
Quale fu il primo esperimento "utile" di Ugo Amaldi?
Alla fine del ’57 facevo il servizio di leva all’Aeronautica di Bracciano, che aveva un centro meteo avanzatissimo diretto dal Generale Giorgio Fea. A quell’epoca le grandi potenze sperimentavano gli effetti delle bombe atomiche facendole esplodere ad alta quota, anche se in località remote. Un disastro ecologico. I militari mi incaricarono di creare una rete di rilevatori delle radiazioni presenti nell’aria che respiravamo. Piacque anche all’Istituto di Sanità che mi incaricò di installarne uno sul tetto: funzionò così bene che intercettammo le dispersioni di un esperimento nucleare non dichiarato, informandone il nostro Governo. A quell’epoca non esistevano i social e la cosa ebbe un discreto effetto politico.
Lei lavorò all’ISS fino al 1961, perché quell’anno venne al Cern?
Perché secondo Ageno dovevo fare un’esperienza all’estero e qui lavorava un allievo di mio padre, Giuseppe Fidecaro. Arrivai a Ginevra nel 1961 con Clelia.

Ugo Amaldi al Dottorato honoris causa dell'Università di Uppsala nel 2000, con la moglie Clelia - .
Come ha conosciuto Clelia?
Nel 1959 partecipavo a un corso della Società italiana di fisica sul lago di Como. Filavo con una ragazza romana di buona famiglia, che sarei andato a trovare al mare poco dopo: a quell’epoca le vacanze dei ragazzi romani si facevano in Versilia. A Varenna, una sera, passeggiando, incrociai una ragazza bella, slanciata, giovanissima. Dissi al mio amico “che bella”. E tutto finì lì, fino a una sera successiva quando la incontrai di nuovo in una balera – non esistevano le discoteche – e la invitai a ballare. Aveva un vestito a quadrettini che ho ritrovato recentemente tra le sue cose. Al termine del ballo la invitai a un concerto che la Società di fisica organizzava nei giorni successivi. Pochi giorni dopo, ci dovemmo separare: lei andava in vacanza con i suoi ad Alassio e io tornavo a Roma. Ma non riuscii a dimenticarla e quando dissi ai miei amici – e alla ragazza con cui filavo – che quell’estate sarei andato al mare ad Alassio perché avevo conosciuto una ragazza che mi piaceva, tutti mi guardarono come un matto. Alassio non era proprio contemplata nella geografia estiva dei romani! Era lo stesso sguardo che mi riservò mia madre quando, il 26 agosto del 1959, il giorno del mio compleanno, nella vecchia casa di famiglia vicino a Piacenza le dissi che avevo avrei sposato la ragazza di Alassio. Erano passati meno di due mesi da quel ballo. Mio padre mi prestò la 600 e da Piacenza tornai ad Alassio, dove la chiesi in sposa. Disse sì due mesi dopo. Io avevo venticinque anni e dall’Istituto di Sanità ricevevo uno stipendio di 100 mila lire al mese. Lei ne aveva venti e studiava lingue alla Bocconi.
Perché poi non rimaneste a Ginevra?
Nel primo periodo del Cern mi resi conto che anche qui tutti conoscevano Edoardo Amaldi e provavo enorme imbarazzo; non mi pesò quindi tornare a Roma, dove – con amici e colleghi dl Laboratorio di fisica – effettuai, come ho detto, i primi esperimenti di diffusione quasi elastica di elettroni sia su nuclei sia su molecole.
Come faceva a documentarsi, prima del digitale?
Si passavano giorni e giorni in biblioteca. Se avessi avuto l’intelligenza artificiale sarebbero bastati pochi secondi. Quando ebbi l’idea di studiare sperimentalmente la diffusione quasi-elastica sulle molecole, come avevamo fatto per i nuclei al sincrotrone di Frascati, dopo aver passato molti pomeriggi a sfogliare riviste scientifiche mi imbattei in uno studio russo che ipotizzava l’esperimento ma subito scopersi che nessuno l’aveva realizzato. L’apparato costruito alla Sapienza funzionò immediatamente. Era il mio secondo esperimento importante. I risultati furono pubblicati nel 1969 ed ebbero una certa risonanza tra i fisici atomici e molecolari, anche se non tutti capirono subito le potenzialità della nuova metodica. Dodici anni dopo essermi laureato capii che Ugo Amaldi poteva fare buona scienza indipendentemente dall’essere figlio di Edoardo Amaldi.
Quali furono le scoperte successive?
In seguito, da fisico dell’Infn e dell’Iss, andai al Cern per studiare cosa succedeva quando i protoni accelerati nel nuovo collisore, detto Intersecting Storage Rings, si urtavano testa a testa e, andando quasi dritti, cambiavano di molto poco la direzione del loro moto, Sempre con Giorgio Matthiae, per misurare i protoni che passavano molto vicino al fascio circolante progettammo dei rilevatori contenute in recipienti fatti come pentole che entrano ed escono nella ciambella del collisore. Il tecnico francese non sapeva come chiamarle e le chiamò “Roman pots” perché noi venivamo da Roma. Oggi tutti i collisori sono dotati di “Roman pots” per rilevare le particelle. Studiando la diffusione a piccolo angolo – in un gruppo di una dozzina di ricercatori detto ‘CERN-Rome Collaboration’ – ho fatto la mia prima vera scoperta. Ero il solo ad analizzare i dati. Lavorando giorno e notte mi resi conto che il numero delle diffusioni protone-protone aumentava con l’energia delle collisioni: non era previsto, era un aumento del dieci per cento, fuori dal comune. Iniziai a dire che qualcosa non tornava. Doveva esserci un fenomeno nuovo. Mi scontrai con un muro di scetticismo perché la teoria che dominava all’epoca diceva che la probabilità di queste collisioni non doveva cambiare malgrado la variazione dell’energia: era la teoria di Regge, che fu poi abbandonata.
Cosa provò?
Ero esilarato. Esageratamente felice. E dispiaciuto per lo scetticismo dei colleghi. Ne parlai con Clelia, che non fece un plissé. Mi fece notare che avevamo quattro figli piccoli. Doveva pensare ad altro.
Come cambiò la sua vita dopo quella scoperta?
Molto, ma le scelte fondamentali non dipendono dalla scienza. Ovviamente la scoperta fu importante: divenni noto nel piccolo mondo della fisica, tenni molti seminari anche in USA e pubblicai su grandi riviste scientifiche, finché al Cern mi offrirono un posto di staff permanente, raro e ambito. Ci pensai su ma decisi che non volevo accettare, avevamo già quattro figli e intendevo tornare a Roma, all’Istituto superiore di sanità. Quando tornai a casa per dirlo a Clelia lei mi accolse in cucina con questa frase: «Ugo, volevo dirti che restiamo qui: ho iscritto i bambini a scuola». Accettai quel posto.
Su cosa lavorò negli anni Settanta?
Nel 1975, Burton Richter – Premio Nobel nel 1976 insieme a Sam Ting per la scoperta del primo bosone "charmato" – trascorse un anno sabbatico al CERN, dove scrisse un articolo dimostrando che il costo dei collisori elettrone-positrone aumenta con il quadrato dell’energia di collisione. Per risolvere il problema, ebbi l’idea di raggiungere energie maggiori dei 200 GeV del futuro LEP, che avrebbe avuto una circonferenza di 27 chilometri, facendo scontrare due fasci di elettroni e positroni prodotti da due acceleratori lineari superconduttivi, riducendo le dimensioni trasversali dei fasci dopo aver fatto circolare i positroni in un "damping ring". Questo schema aveva un costo che aumentava linearmente con l'energia di collisione. L’articolo, che descriveva anche i damping rings oggi ben noti, fu pubblicato all’inizio del 1976 e suscitò grande interesse nella comunità della fisica delle alte energie – nonostante il fatto che, all’epoca, le cavità superconduttive a radiofrequenza avessero gradienti bassi, solo 5 MeV al metro. Nel 1990 a un Simposio della Cornell University presentai una lista di parametri per un possibile collisore lineare superconduttore, proponendo di costruirne uno con energia crescente, raggiungendo, lungo il percorso per raggiungere i 500 GeV nel centro di massa, prima 100 GeV e poi 200 GeV in modo da produrre abbondantemente i bosoni ‘intermedi’ scoperti da Carlo Rubbia. La proposta fu subito accettata dalla comunità dei fisici dediti ai collisori.

Ugo Amaldi (secondo da sinistra) con i più stretti collaboratori dopo l'approvazione alla costruzione di DELPHI - .
Come divenne “spokesperson” – in sostanza “capo” – della collaborazione DELPHI?
Mi trovai nel posto giusto al momento giusto. Nel 1980, all’età di quarantasei anni, insieme a Guido Barbiellini, ebbi l’idea di mettere insieme una collaborazione internazionale per costruire un grande rivelatore di particelle per l’acceleratore circolare da 27 chilometri, il Large Electron Positron Collider (LEP) e fui eletto spokesperson della collaborazione DELPHI (acronimo di Detector with Lepton, Photon and Hadron Identification). Il rilevatore era lungo dodici metri e alto altrettanto. Il suo campo magnetico assiale era prodotto dal più grande solenoide superconduttore mai costruito. Ci diede molte soddisfazioni perché nel 1990 iniziammo a pubblicare risultati originali e interessanti. In particolare. uno sull’unificazione delle tre forze fondamentali (deboli, elettriche e forti) che fece molto rumore. Il fisico inglese John Barrow scrisse: «Nel 1991, Ugo Amaldi, Wim de Boer e Hermann Fürstenau dimostrarono che l'incrocio non si verificava a meno che non esistesse una speciale “supersimmetria”, di cui si sospettava da tempo l'esistenza in Natura».
Nel 1993 si dimise per dedicarsi all’adroterapia. A quell’epoca la collaborazione Delphi coinvolgeva 500 fisici provenienti da 40 istituti in 20 diversi Paesi, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dal Brasile alla Finlandia e alla Polonia. Perché lasciare tutto questo per tornare alla fisica medica?
A 57 anni la mia carriera di ricercatore sarebbe evoluta a livello manageriale e non più in prima linea. Sono tornato al primo amore, come diceva Clelia, che ha sempre preferito che mi applicassi all’applicazione delle scoperte alla salute, piuttosto che alla ricerca fondamentale. Nel 1964, quando mi incaricarono di occuparmi di protezione delle popolazioni dalla radiazione intorno agli impianti nucleari e dovetti studiare i raggi X, le schermature e il lavoro dei radiologi, insomma quando iniziai a occuparmi di fisica delle radiazioni, scrissi un trattato di novecento pagine su quest’argomento, che fu lungamente utilizzato da radiologi e fisici medici di tutta Italia. Trent’anni dopo mi disse, appunto, «sei tornato al primo amore». Era vero, ma era anche il suo. Infatti, un giorno mi confessò che ai suoi occhi avevo un solo difetto: avrebbe voluto sposare un medico ed ero un fisico. Mi sono così inventata una lunga carriera da fisico medico.
Una storia d’amore, oltre che di scienza. Ma i medici amano i fisici?
Bella domanda. Dall’82 insegnavo fisica delle radiazioni alla Scuola di specializzazione in fisica medica di Milano e il mio amico Ettore Fiorini, che la dirigeva, mi disse: se vuoi lanciare l’adroterapia in Italia devi diventare ordinario, altrimenti i medici non ti ascolteranno. Così feci domanda per una cattedra di fisica a Firenze e poi mi trasferii alla seconda facoltà di scienze della Statate di Milano, nella nuova sede di Como, dove nel 1993 organizzai - con il grande radiobiologo svedese Börje Larsson- il primo Congresso internazionale di adroterapia.
Come portò l’adroterapia in Italia?
Alla fine degli anni Ottanta, durante le conferenze del progetto Icaro, avevo conosciuto Gaudenzio Vanolo, che è tuttora segretario generale della fondazione Tera e che ebbe l’idea di creare la fondazione per adroterapia oncologica (Tera), senza la quale non saremmo riusciti a fare nulla. Volevamo progettare e costruire un centro ospedaliero che utilizzasse i fasci di protoni e ioni leggeri (in particolare gli ioni carbonio) per colpire i tumori solidi con precisione ed efficacia maggiore di quella consentita dai raggi X. Lo facevano già negli Usa. Il salto decisivo avvenne nel maggio 1991, quando distribuimmo un rapporto scientifico - scritto con il mio amico e noto fisico medico milanese Giampiero Tosi – dal titolo "Per un Centro di Teleterapia con Adroni". Proponevamo di formare un gruppo di fisici e ingegneri per progettare e costruire un centro di terapia per i tumori basato su questa nuova tecnica di radioterapia, che allora era praticata soltanto a Berkeley.
Oggi esiste, a Pavia, ma allora come se lo immaginava?
Discutemmo sia gli acceleratori per protoni che quelli per gli ioni carbonio, completamente spogliati di elettroni, ma fin dall’inizio la mia preferenza andava verso l’accelerazione di ioni carbonio mediante un sincrotrone a temperatura ambiente. Questo documento divenne il primo di una lunga serie di TERA Reports. Il 10 aprile 1992, durante un incontro dell’AIFB (Associazione Italiana di Fisica Biomedica), utilizzai per la prima volta in pubblico il termine "adroterapia" (“hadron therapy” in inglese) e il neologismo ebbe un successo immediate e in tutto le lingue.
Come siete arrivati a costruire il CNAO a Pavia?
Per prima cosa coinvolsi Marco Silari e Guido Petrucci, che al CNR e al CERN erano grandi esperti di sincrotroni: ero convinto che il nostro progetto dovesse essere ambizioso negli obiettivi – scegliendo gli ioni carbonio rispetto ai protoni, poiché le radiazioni ad alta densità di ionizzazione possono controllare meglio i tumori radioresistenti – ma conservativo nei mezzi, optando per un sincrotrone, invece che per un ciclotrone superconduttore, per accelerare ioni leggeri fino a 5000 MeV. Ottenni il supporto dell’INFN di Nicola Cabibbo, quindi della Banca Popolare di Novara. A livello politico, un impulso fondamentale venne dal ministro Veronesi. Il progetto del centro nazionale di adroterapia con protoni e ioni carbonio (CNAO), che fu aperto a Pavia nel 2010 sotto da Direzione Tecnica di Sandro Rossi, che lavorava con TERA dal 1992, ha poi portato TERA allo studio di nuovi acceleratori compatti, un sincrotrone compatto ad alto campo ed infine un’idea che ritengo rivoluzionaria, il linac per protoni a 3 GHz, combinato a un ciclotrone commerciale a bassa energia. Oggi, l’adroterapia è una tecnica consolidata e sempre più diffusa in Italia e nel mondo e grazie alla combinazione di passione, innovazione e collaborazione, abbiamo contribuito a portare la fisica nella medicina moderna. Era anche il desiderio di Clelia, che con gli anni si è convinta, come me, che la fisica è non soltanto bella ma anche utile.
Da uomo di scienza, spera di rivedere sua moglie?
Non vedrò mia moglie ma, un giorno, godrò della sua compagnia insieme a quella di tutti coloro che sono vissuti, nell’immensità di Dio. È una prospettiva che Cristo anticipò con la parabola della vedova di sette fratelli e rientra nella mia visione del legame profondo tra realtà fisica, spirito e anima numinosa che, come ho detto, sarà oggetto di un libro. Lo sto scrivendo molto lentamente e porterà il titolo “Una scienza, due trascendenze”. Iniziai a pensarci nel 1999, dopo un dibattito fatto in San Giovanni con il cardinal Ruini, e iniziò a prender forma con due lettere ai miei otto nipoti, scritte proprio su consiglio di Clelia in occasione dei suoi ottantesimo e ottantaduesimo compleanno. Le sue parole furono: “Perché invece di scrivere un libro che nessuno leggerà, non scrivi quello che credi in una lettera ai tuoi nipoti, che certamente la leggeranno?”. Poi le lettere divennero due.
Ci racconti la sua visione religiosa.
Sono sempre stato interessato a capire il sostrato materiale dello spirito, in quanto sono convinto che senza sostrato materiale non esiste spirito. Non sono né idealista né materialista. Sono convinto, ma è indimostrabile, che esista un Essere superiore che ha voluto le bellezze del mondo; la domanda è come le realtà materiali – atomi e molecole e, quindi, stelle e galassie – nascano in questo quadro dove c’è Chi che le ha volute. L’affermazione, che sintetizza ciò in cui credo e convince me come la più ragionevole, nella ricerca di una risposta cristiana alla domanda su Dio, è: “Dio ha creato, fuori dal tempo - e mantiene nell’essere - un Universo che si fa da sé, affinché vi nascessero strutture materiali complesse che potessero essere il sostrato di spiriti, liberi di decidere di sé e delle proprie azioni, e vi sorgessero comunità di organismi autocoscienti socievoli capaci di conoscere, riconoscersi e riconoscerLo e di soccorrere con compassione gli altri organismi autocoscienti, anche se ‘nemici’.” Sono convinto che lo spirito non sia altro che la manifestazione più alta della complessità del nostro cervello; è il sostrato materiale di cui è fatto il nostro Universo che produce ciò che in italiano chiamiamo “spirito dell’uomo”. Lo spirito di ciascun organismo autocosciente è uno ma, nel parlarne, è utile distinguer il luogo dei pensieri, l’intelletto, e il luogo dei sentimenti, l’anima. È lo spirito, unità di intelletto e anima, ci spinge a domandare chi siamo, dove andiamo, perché siamo.... Adottando questa prospettiva, leggo la parola “Logos” usata da Giovanni l’Evangelista come un acronimo: Logica Organizzatrice Generatrice di Organismi Socievoli. È questa la logica che modella la creazione continua della Natura, nel cui sviluppo temporale – determinato da miriadi di fenomeni contingenti – Dio non interviene.
Sono profondamente convinto che lo spirito dell’uomo – meglio, lo spirito di ogni organismo autocosciente che abita l’Universo – sia libero di scegliere, ma soltanto quando ritorna su sé stesso molte volte in un movimento a spirale che permette di rivisitare gli stessi pensieri con sentimenti diversi, nella durata del tempo. Se non avessimo il libero arbitrio non avrebbe senso porsi la domanda sull’esistenza di Dio.
Nella bozza di questo libro lei scrive che, con lo sviluppo delle scienze, la visione antropocentrica è stata sostituita da quella naturalista attraverso un processo culturale di “mortificazione”, parla del Multiverso come varietà di universi e della centralità di Dio-Artefice… Lo leggeremo, quando sarà edito, ma ci dica che cosa ci fa l’uomo in questa visione cosmologica e ontologica…
‘Razionalità scientifica’ e ‘ragionevolezza sapienziale’ sono due specificazioni dell’intelletto umano. L’intelletto ha anche una terza faccia, la ‘ragione filosofica’, che è più nascosta e difficile da definire e utilizzare ma che, per alcuni, gioca - nello svolgersi della vita - un ruolo altrettanto importante della ragionevolezza sapienziale.
Le differenze tra razionalità scientifica, ragionevolezza sapienziale e ragione filosofica vengono bene in luce se si considera l’insieme delle domande generali, che gli uomini pongono e si pongono e che dipendono dalla loro storia ed esperienza di vita. Ai tre tipi di domande (problemi scientifici, quesiti esistenziali e questioni filosofiche) l’intelletto di ogni uomo risponde come può, applicando al meglio criteri di verità diversi, e, per questo, la distinzione non è nominalistica.
Poiché l’intelletto ha tre specificazioni, ho scelto di rappresentare ogni organismo autocosciente con un tetraedro, solido geometrico che ha quattro facce triangolari. Questo tetraedro ha come base il triangolo-corpo, che è parte del modo fisico, della Natura. Le altre tre facce, che vi si appoggiamo, non fanno parte del mondo fisico, svettando al di sopra e rappresentano la razionalità scientifica, la ragionevolezza sapienziale e la ragione filosofica. Il luogo di sentimenti, l’anima, è l’ampio e misterioso spazio che si trova all’interno del tetraedro. Nell’Universo non esistono tetraedri isolati, perché gli organismi autocoscienti nascono e sviluppano le loro potenzialità soltanto all’interno di una comunità d’individui. La Natura - attraverso la selezione naturale aiutata dalla cooperazione spontanea tra Io-autocoscienti – produce società e non singoli individui, che popolano soltanto una frazione infinitesima dell’Universo.
Quali criteri guidano la ragionevolezza sapienziale?
Quello del testimone credibile. Si fida del giudizio dei testimoni cui sente e sa di poter credere. Il cristiano si affida a Gesù Cristo e il cardine della sua testimonianza è il discorso della montagna: amate i vostri nemici. Amare il prossimo è secondo natura, e tutte le grandi religione lo hanno riconosciuto con la Regola d’oro, ma amare il nemico va contro la legge darwiniana della difesa e disseminazione del proprio DNA. È questa la novità sconvolgente del messaggio cristiano.
Quindi lo spirito è una manifestazione della materia e non esiste al di fuori della realtà materiale?
Lo spirito di ciascun organismo autocosciente guarda attraverso il fondo del tetraedro nell’immensità di Dio, che è ‘sotto’ tutte le cose, ed è guardato da Lui, che lo sostiene nell’essere, in una dualità non dualistica. Lo spazio che sta ‘sopra’ il mondo naturale è lasciato libero da Dio affinché i tetraedri – cioè le unità di intelletto e anima – di tutti gli esseri autocoscienti possano sia essere sia scegliere liberamente. Come ha scritto Bruno Forte: “Secondo il motivo ispiratore della dottrina giudaico-cabalistica dello ‘zim-zum’ divino, il mondo è potuto apparire proprio perché Dio si è nascosto e contratto. Per creare l’altro come ‘partner’ dell’alleanza, l’Eterno accetta di raccogliersi in un atto di sovrana ‘auto-limitazione’ in modo che la creatura possa esistere ‘al di fuori di lui’: lo spazio dell’abbandono di Dio diventa l’ambiente vitale dell’autonomia dell’essere creato, la condizione della sua libertà di accettazione o di rifiuto del Creatore.”
I “fondi” di quei miliardi di tetraedri che popolano la Terra sono le finestre che separano il mondo fisico da Dio, senza farne parte. Quando si muore, il corpo si corrompe e il tetraedro scompare ma la finestra – l’anima numinosa, ossia sacra, che non è l’anima che fa parte dello spirito – sprofonda nell’immensità di Dio, portando con sé le iridescenze uniche e inconfondibili, che sono il risultato degli atti altruistici che l’organismo autocosciente ha compiuto in vita. Ma senza conservarne il ricordo. L’anima numinosa di Clelia possiede i meravigliosi riflessi della vita vissuta per la famiglia e per gli altri ma non ricorda le persone che ha conosciuto. È unica, con le sue iridescenze, e felice in Dio.