Il Madison Square Garden durante una partita della nuova Nba Cup - USA TODAY Sports
Se New York è la città che non dorme mai, i suoi “Knicks” sembrano invece sprofondati in un sonno senza fine. La storica squadra di basket della Grande Mela nel 2023 ha tagliato un traguardo poco glorioso: sono passati cinquant’anni esatti dall’ultimo titolo Nba. E la maledizione che dura da mezzo secolo non verrà sfatata con ogni probabilità nemmeno nella stagione in corso. Eppure parliamo di una franchigia storica per il campionato dei sogni a stelle e strisce, l’unica sempre presente sin dalla prima edizione (insieme con i Boston Celtics). La data di fondazione è il lontano 1946, il “papà” è Ned Irish, un giornalista visionario che è stato anche uno dei grandi padri della Nba. “Knicks” è in realtà l’abbreviazione di Knickerbockers, un nome che ci porta molto indietro nel tempo addirittura alle origini della città di New York. Siamo nel XVII secolo, quasi cent’anni dopo la prima esplorazione dell’italiano Giovanni da Verrazzano della zona di Manhattan. Qui si insidierà un piccolo gruppo di coloni olandesi che nel 1625 battezzerà questo luogo come Nieuw Amsterdam (Nuova Amsterdam). Cinquant’anni più tardi, conquistata dagli inglesi, fu rinominata New York. L’aristocrazia olandese però continuò ad avere un certo peso come testimonia il racconto satirico A History of New York, scritto nel 1809 da Washington Irving. Il protagonista del libro che ebbe un successo enorme è tal Diedrich Knickerbocker, nome che divenne poi sinonimo di aristocratico olandese, raffinato nei modi e nel vestire.
Nel nome le origini olandesi della città
Negli anni il termine ha finito per identificare i classici pantaloni nobiliari dell’epoca, alla “zuava”, corti sotto il ginocchio ma molto larghi e cascanti in vita. E difatti nel primo logo della squadra c’è un personaggio che palleggia vestito proprio come un antico colono, con pantaloni alla zuava, panciotto e cappello a tricorno. Nel simbolo attuale sono rimasti invece il pallone con i colori sociali, il blu e l’arancione, gli stessi della città di New York. Nel cuore pulsante della Grande Mela sorge anche la casa dei Knicks, il mitico Madison Square Garden. Un’arena che nella buona e nella cattiva sorte dei suoi cestisti, conserva intatto il suo fascino. Se oggi i Knicks nonostante tutto rimangono la franchigia che vale di più in Nba (5,8 miliardi di euro) dopo i Warriors, il merito è anche del “Garden”, così come lo chiamano i newyorkesi. Non solo un palazzetto, ma anche il teatro di concerti storici delle star della musica. Inaugurato nel 1968 e intitolato al quarto presidente americano, il Madison costò 123 milioni di dollari. Qui dentro i Knicks festeggiarono i loro due unici anelli, nel 1970 e nel 1973, grazie a fuoriclasse del calibro di Willis Reed e Walt Frazier. Anni d’oro prima di un declino inarrestabile. Con tanti rimpianti, a cominciare da quello incredibile del 1976: dopo la fusione tra Aba e Nba, nel massimo campionato statunitense approdò l’altra squadra di New York, i Brooklyn Nets. Agli acerrimi rivali i Knicks chiesero una tassa di 4,8 milioni per aver “invaso” l’area della Grande Mela. E i “cugini”, già tanto indebitati e a rischio iscrizione, furono costretti a cedere il loro talento, il grande Julius Erving: il leggendario “Doctor J” prima di approdare ai Sixers, facendo la fortuna di Philadelphia, fu proposto ai Knicks che clamorosamente rifiutarono. Forse la peggiore decisione della loro storia visto che ancora oggi si mangiano le mani. In tanti anni di buio dopo gli anni Settanta c’è stato però un periodo luminoso che ha fatto davvero sognare i tifosi newyorkesi. Sono i Knicks degli anni Novanta, a cui è dedicato anche il recente Sangue al Garden del giornalista americano Chris Herring (66thand2nd, pagine 336 euro 20). Con un mix di talento e ferocia sfiorarono due volte l’anello, ma ebbero la sventura di trovarsi a cavallo tra due dinastie: i Chicago Bulls di Michael Jordan e gli Spurs di Duncan e Robinson. Il rammarico è grande soprattutto per la finale del 1994 persa dopo sette partite contro gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon. Con Jordan fuori dai giochi per il primo ritiro e la maturità raggiunta dal gruppo di Pat Riley, l’epilogo poteva essere diverso. Più netta fu invece la sconfitta nella finale del 1999 contro San Antonio.
La bolgia del Garden e il gigante di Kingston
Ma dopo tante, troppe stagioni anonime, l’entusiasmo suscitato negli anni Novanta si toccava con mano. Giocare a New York non era facile per nessuno: «Se sai giocare al Madison Square Garden ti rispettano. Se non sai giocare te lo faranno capire» ha detto Jordan che con i suoi Bulls fu qui protagonista di sfide davvero infuocate. Il volto dei Knicks dell’epoca era l’inconfondibile Patrick Aloysius Ewing, il totem col baffo più celebre della Nba, tra i pivot più forti di tutti i tempi. Pilastro anche del Dream Team delle Olimpiadi del 1992, Pat, oggi 61 enne, è nato a Kingston in Giamaica ma è naturalizzato statunitense: aveva 12 anni quando la famiglia decise di trasferirsi negli States. Dalla passione per il cricket e il calcio al basket fu un attimo visto che a quindici anni misurava già 2.05 metri. Ma l’ambientamento negli Usa non fu affatto facile: di carattere riservato e timido, patì le difficoltà con la lingua e anche lo offese razziali. La svolta arrivò al college grazie a John Thompson, più che un coach un vero padre. Allenava gli Hoyas di Georgetown, la più antica università cattolica degli Usa, fondata dal gesuita John Carroll nel 1789. Sotto la sua guida Ewing regalò all’ateneo il primo e unico campionato Ncaa nel 1984 facendo diventare Thompson anche il primo coach afroamericano vincente del basket universitario. Una figura carismatica che ha lanciato anche altri campioni (da Mutombo a Iverson), un uomo convinto dell’importanza dell’istruzione e della fede per essere bravi atleti ma soprattutto uomini buoni.
Thompson, il carismatico mentore di Georgetown Cattolico devoto, assiduo alla messa domenicale, ma sempre in disparte per non farsi notare, una volta a un giornalista venuto a scovarlo in chiesa disse che lui era lì per adorare non per essere adorato. Thompson fu il mentore decisivo per l’esplosione di Ewing che a suon di stoppate riportò New York ai piani alti della Nba. Accolto come il “Messia”, il pubblico esigente del Madison ha riservato al suo ruvido centro un affetto a intermittenza. Alla fine mai amato fino in fondo e non quanto meritasse un giocatore diventato icona della Nba (nel 1995 comparve anche nel film Space Jam). E tuttavia per gli smemorati e gli ingrati la sua canotta leggendaria numero 33 campeggia in bella mostra anche oggi al Madison Square Garden da quando fu ritirata con una maestosa cerimonia nel 2003. Nella sua parabola c’è tutto il destino dei Knicks degli anni Novanta. «Maltrattarono consapevolmente i loro corpi, e a volte inconsapevolmente anche le loro anime, arrivando a un passo dall’immortalità cestistica senza riuscire mai ad assaporarla» scrive Herring. Eppure anche senza anello si guadagnarono l’onore riservato agli eroi epici che non si diedero mai per vinti. Sconfitti ma ricordati per sempre.