domenica 6 aprile 2025
Ritenuta spesso una chimeraè invece la realizzazionedella dignità del lavoratoree del cittadino. L'idea di Thomas More, riletta da marxismo, pensiero cristiano e dal principiopopperiano
Un particolaredell’opera “Daimoku”(2018), di MarionBaruch

Un particolaredell’opera “Daimoku”(2018), di MarionBaruch

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L’utopia viene spesso nominata nei media con il significato di “chimera” o di sogno irrealizzabile. A Roberto Benigni va il merito di avere elogiato (nello spettacolo “Sogno” del 19 marzo) l’idea dell’Unione Europea come l’unica utopia ragionevole dei nostri tempi. Per molti l’utopia sarebbe però invenzione arbitraria e senza punti di appoggio. E anche nella saggistica più colta la stima dell’utopia registra quotazioni molto basse. Nel 2016 Massimo Cacciari e Paolo Prodi hanno pubblicato Occidente senza utopie.Di fronte agli eventi attuali appare più calzante il riferimento alle distopie, cioè a scenari minacciosi di trasformazione negativa in un presente impregnato di tecnologie invasive, foriere di dominio e di asservimento su scala planetaria. L’utopia – letteralmente “non luogo” ma anche “luogo buono” o eu-topos – sarebbe quindi diventata nient’altro che fumo negli occhi e impedirebbe uno sguardo sgombro di illusioni, capace di cogliere lucidamente l’evento del novum? È solo un sacco vuoto che si affloscia su sé stesso? Oppure è un’attività progettuale a cui dedicarsi con le risorse creative del pensiero e dell’immaginazione? E quali sono le sue credenziali? Nella configurazione “concreta” che le è stata data da Karl Mannheim in un’opera cult quale Ideologia e utopia (del 1928), quest’ultima viene proposta come tensione a un assetto sociale e politico volto a superare il mondo presente, ma per niente da esso sradicato. Infatti il messaggio utopico affonda le sue radici nelle sofferenze dell’esistente, di cui non solo denuncia le contraddizioni ma indica pure le energie di trasformazione verso esiti positivi. I soggetti che la incarnano e la perseguono con la loro azione hanno chances di successo se non sono sbilanciati unilateralmente né verso il futuro, con anticipazioni immature, né verso il passato, con regressioni nostalgiche. L’utopia è infatti efficace se innesta il cambiamento proteso al futuro nelle dinamiche della situazione presente e nell’eredità che viene dal passato. Altrimenti scade nell’utopismo, che ne è una contraffazione velleitaria.

Agli albori della modernità Thomas More, che dà alla luce la sua Utopia a Lovanio nel 1516, critica anzitutto il modello di rapina e di sfruttamento connesso all’incipiente sistema produttivo capitalistico; descrive poi un modello alternativo di vita e di convivenza incardinato sulla «misura del lavoro», in modo che tutti i cittadini possano consacrare il maggior tempo possibile «alla libertà e alla cultura dell’animo». Questo orizzonte di completezza antropologica, che compone in armonia lavoro, azione e contemplazione, conserva tutta la sua pregnanza profetica in un’epoca quale la nostra, dove l’umano è ampiamente legato ai ceppi del produttivismo-consumismo ed è sottomesso all’imperativo della prestazione, cui si aggiunge la dispersione in un tempo molto meno libero di quanto non sia ad esso funzionale. Scartata dal socialismo scientifico, l’utopia è stata riproposta invece dalla “corrente calda” del neo-marxismo contemporaneo. Nel famoso Principio speranza Ernst Bloch ha legato strettamente l’utopia all’idea di speranza. I teologi che hanno dialogato con Bloch, come Jürgen Moltmann, non hanno esitato ad ancorarla a un’idea di trascendenza che, con validi argomenti, può ambire a essere il fondamento più significativo della stessa utopia mondana.

Il filo rosso dell’utopia giunge sino a noi, motivando un antagonismo costruttivo di condizioni nuove. Quasi riprendendo a distanza le suggestioni di More e stimolato dalla lettura di Simone Weil, un sindacalista-filosofo come Bruno Trentin ha proposto una «utopia sperimentale» da applicare alle condizioni di lavoro, per uscire dalla «religione delle forze produttive» e ricercare la via di una liberazione progressiva dal «rapporto di oppressione» e dal «sistema di potere» insiti «in tutte le forme di organizzazione industriale». L’utopia così intesa non pretende di bruciare le tappe della storia ma, pur consapevole della “irraggiungibilità” relativa dell’obiettivo, non indulge allo spirito di rinuncia ed esplora al contrario un “metro di misura” per sperimentare, nella loro interazione, tutte le possibilità, anche le più modeste, di “approssimazione” al risultato della liberazione del lavoro. Il lavoro infatti è per la persona, che vive qui e ora, e quindi va già ora, per quanto gradualmente, affrancato dalla logica della subordinazione e della eterodirezione, senza farsi abbagliare dal miraggio di un atto rivoluzionario istantaneo. Emerge qui con chiarezza che il contenuto dell’utopia è duplice: la realizzazione della persona nell’intero delle sue dimensioni e il riscatto di chi subisce la deprivazione della sua dignità.

Il riconoscimento universalistico della persona è il passo necessario e preliminare alla costruzione sia dell’uomo-lavoratore sia dell’uomo-cittadino Si tratta di una meta da perseguire con tenacia e insieme con mitezza. Mitezza significa sottrarsi alla pretesa di tradurre ed esaurire l’utopia in disegni di precisione geometrica. In un’opera dal titolo La coscienza utopica (1970), importante per chi negli anni ha coniugato il tema utopico con una filosofia di orientamento cristiano, Virgilio Melchiorre metteva in guardia dall’assimilazione dell’utopia al parto di una intelligenza calcolante che, associando dogmatismo teorico a frenesia operativa, è causa non di trasformazione della realtà data ma di corti circuiti dagli effetti devastanti. Lo spirito utopico, innervando sia le azioni innovatrici in formato grande sia le esperienze di cambiamento in formato piccolo, dovrebbe piuttosto accettare di sottoporre progetti e risultati al principio popperiano della falsificabilità, rendendosi disponibile alla verifica dei mezzi e alla saggia correzione degli obiettivi. Altrimenti l’utopia si irrigidisce nell’ideologia, cieca ai limiti e alle inadempienze. Di ragionevole utopia diceva Benigni. Ed è proprio questa l’utopia della persona. In una congiuntura storica squilibrata, all’Unione europea si potrebbe chiedere di metterla in pratica a tutto campo.

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