
Bruno Bozzetto insieme al suo Signor Rossi - Studio Bozzetto
A 87 anni, Bruno Bozzetto, il papà italiano dell’animazione, arriva all’appuntamento nel suo Studio attraversando Bergamo in sella a una bici elettrica. E se non ci fosse il traffico che dalla città porta al Lago d’Iseo sarebbe arrivato in bici anche fino a Riva di Solto dove, dopo due giorni di kermesse bozzettiana, gli hanno appena conferito la cittadinanza onoraria. Come onorata è la lunga strada percorsa nel campo dell’animazione, genere di cui in Italia è riconosciuto come il pioniere assoluto dal 1958: anno del suo film d’esordio, Tapum! La storia delle armi. Prima di lui, c’erano stati solo i fratelli Pagot. «Ma quella era un'azienda e quando giovanissimo andai a chiedere lumi a Toni e Nino Pagot mi diedero l’unico consiglio sbagliato: “Non pensare di fare dell’animazione un mestiere, tienitelo come hobby”». Quell’hobby è diventata un’arte riconosciuta a livello internazionale: è “La Pop Art animata di Bruno Bozzetto” come recita il titolo della mostra antologica che, fino al 15 novembre, gli dedica il Museo Interattivo del Cinema di Milano.
Un universo di storie di celluloide, di personaggi animati scaturiti da un “piano da stiro”.
«Quella è stata la grande invenzione di mio padre, l’ingegner Umberto Bozzetto che su quell’asse da stiro mi permise di fissare i rodovedri: i fogli in cellulosa su cui disegnare che poi fotografavo con la mia macchina, una Paillard Bolex, appesa perpendicolarmente. Così sono nati i primi due film sperimentali quanto domestici, Piccolo mondo amico e A filo d’erba».
Inventiva e tecnica paterna e creatività artistica ereditata dal nonno materno.
«Papà era un inventore nato e fu il primo ad accorgersi del mio istinto artistico. Da bambino ero capace all’istante di cogliere il minimo errore nei disegni che raffiguravano una mano o un volto. La passione per il disegno me l’ha trasmessa mio nonno Girolamo Poloni, pittore di Martinengo. È stato un apprezzato affreschista di stile seicentesco, un anarchico, un uomo chiuso che non era affatto contento di lavorare per la Chiesa, ma quella era la sua committenza e il pane sicuro da portare a casa. Il nonno è stato il primo “carosellista” in famiglia. Non ha fatto in tempo a vedere i miei primi lavori che certo non facevano pensare a un futuro nell’animazione, anche perché all’epoca non esistevano neppure gli animatori dei villaggi turistici».
Con lo Studio Bozzetto di via Melchiorre Gioia a Milano, in pieno boom, 1960, nasce la prima vera “factory” italiana dei film di animazione.
«Uno Studio che prima di tutto, era e rimane anche qui a Bergamo, una famiglia. Io non ho mai avuto dipendenti, ma amici che sono diventati dei validi collaboratori con i quali confrontarmi, dalla progettazione alla realizzazione, fino alle prime colonne sonore che per me le componeva il grande Enzo Jannacci. In Studio abbiamo cominciato con Guido Manuli, il mio braccio destro, Giancarlo Cereda scenografo cugino di un mio compagno di scuola, Giuseppe Laganà che è morto una decina di anni fa e l’altro giorno purtroppo ho saputo che ci ha lasciati anche Giovanni Mulazzani. Nel gruppo entrò anche un amico di famiglia, un professore che insegnava cinema all’Università, Attilio Giovannini, aveva collaborato anche con i fratelli Pagot ed è stato lui che un giorno sulla spiaggia mi disse: “Bruno perché non fai un lungometraggio. E così nel 1965 ho fatto West and Soda».
Prima però c’è stato Tapum! La storia delle armi.
«Io volevo titolarlo solo La storia delle armi ma a mettere davanti Tapum! come la canzone popolare della Grande Guerra, fu un altro suggerimento prezioso di mio padre. Il messaggio del film purtroppo è quanto mai attuale: l’uomo non impara mai niente dalla storia e così compie sempre gli stessi errori, a cominciare dalla maligna capacità di far scoppiare guerre infinite. A 16 anni ho letto un libro che mi ha segnato profondamente L’istinto di uccidere. Le origini e la natura animali dell'uomo di Robert Ardrey. L’autore spiega: ma se l’uomo, uno degli animali più piccoli in natura, che non ha artigli d’aquila, né denti leonini, è riuscito a far fuori tutti gli animali della terra, allora vuol dire che è davvero è l’animale che possiede il maggiore istinto distruttivo».
L’umorismo e gli aforismi geniali di Marchesi rimandano a quelli di Flaiano che ha letto avidamente e alla sua passione per il cinema di Federico Fellini.
«Fellini mi aveva chiamato perché facessi l’animazione dei titoli di Ginger e Fred. Lo incontrai in un albergo di Milano con sua moglie Giulietta Masina, ma poi non se ne fece nulla. Forse meglio... Confesso che ero in soggezione. Mi terrorizzava dover lavorare per il mio idolo, il pensiero di fare qualcosa per lui mi spaventava anche perché Fellini disegnava da Dio. Io sono sicuro di una cosa: se quel giorno da Rimini avesse sbagliato treno e invece di scendere a Roma fosse salito a Milano, Fellini sarebbe diventato il nostro Miyazaki, il re dell’animazione. Ha scelto Cinecittà, e visti i capolavori che ci ha lasciati è stata una scelta azzeccata».
L'ha azzeccata anche lei visto l’encomio ricevuto dalla dinastia dell’animazione: i Disney.
«La candidatura all’Oscar del 1991 per il film Cavallette mi ha fatto piacere certo - anche se sapevo che non avrei mai potuto vincere contro Nick Park che quell'anno aveva due splendidi film in concorso - , ma aver avuto una mostra al Museo Walt Disney di San Francisco è stato sicuramente il riconoscimento più importante a cui potessi aspirare. Una mostra voluta da sua figlia, Diane Disney, che all’inaugurazione faceva da Cicerone nelle sale e nella dedica del catalogo alle mie figlie ha scritto parole in cui mi associava a quel genio di suo padre. Walt Disney rimane inarrivabile, aveva creato un mondo meraviglioso in cui era stato capace di disegnare sette camminate diverse per ognuno dei 7 nani di Biancaneve per poi buttare via tutto… perché aveva capito che quelli funzionavano solo se camminavamo di pari passo. Poi è arrivata la Coca-Cola e quella grande bottega di famiglia della Disney è diventata un’altra cosa, e oggi la sua memoria in America purtroppo non è adeguatamente rispettata».
In compenso in America, a differenza che da noi, nel 1976 capirono subito il suo Allegro non troppo. Film a tecnica mista (personaggi veri e di animazione) antesignano in tutto, compresa la denuncia al consumismo. Eppure gli spot pubblicitari sono stati la sua fortuna.
«Infatti mi rinfacciavano di sputare nel piatto dove mangiavo, ma non era facile combattere con gli inserzionisti e ancora peggio con “i codini” imposti dalla Sacis che ci obbligava a citare la marca del prodotto alla fine del carosello con l’escamotage dell’aggancio, misurando poi sul bilancino i secondi da non sforare, pena: la censura. Ho combattuto per anni con la Rai perché mi sembrava immorale che facesse pagare per 2’15 di pubblicità quando in realtà erano i 35 secondi finali dello spot che passava per sei settimane e alla fine entrava per forza nelle teste degli italiani. Quanto ad Allegro non troppo mi colpisce che cinquant’anni dopo piaccia così tanto. Però confesso che se lo rigirassi oggi nel cervello al posto dei missili metterei i cellulari. Anche se ora le nuove generazioni nascono già con il cellulare incorporato».
Allegro non troppo era anche il film che aveva stregato Piero Angela che infatti la chiamò a lavorare a Super Quark.
«Mai lavorato con una persona e un professionista migliore di Piero Angela. Ma la storia vera è che fui io a proporgli di realizzare un film tratto da un suo libro che avevo letto e riletto come poi mi è capitato ogni volta che ne pubblicava uno nuovo. Ma l’idea del film tratto dal libro non lo convinceva. Poi un giorno mi telefona e mi dice: La Rai mi dà una rubrica. Oggi l’Espresso mi ha pubblicato un articolo sull’energia prova a fare uno storyboarding e vediamo che succede. Detto, fatto, gli mando il filmato e lui risponde: “Bellissimo, facciamone altri”. Ne abbiamo fatti 100, 60 seri e 40 in pillole».
Molti di quei film parlavano di animali, come il cane Doggy.
«Doggy è una creatura del Covid. Quando sono rimasto chiuso in casa come tutti, mi sono detto: ora che faccio? Guardavo la mia cagna Shila e fissandola pensavo: mi stai dicendo delle cose, ora devo provare a interpretarle. Un suo pensiero ricorrente credo sia stato quello che ho messo nella striscia in cui faccio dire a Doggy: “Noi regaliamo amore infinito senza dire una parola”. I cani, in silenzio, rappresentano la purezza, sono sempre fedeli a noi uomini e a se stessi, sono così come li vedi, mentre l’uomo ha dieci facce e cambia continuamente, e spesso in peggio. Ma tutto il bene che penso del cane potrei dirlo per un asino o della mia pecora Beelen che poverina è morta due mesi fa. Era un agnellino quando l’abbiamo trovata nel campo davanti casa ed è vissuta con noi per 11 anni convinta di essere un cane pastore. Mi dava la zampa, apriva un chiavistello con la bocca e tutte le maniglie delle porte di casa. La pecora è l’animale più umile del mondo, ma io ho imparato che tutti gli animali, se li accudisci e li fai crescere con amore, sono tutti umili e intelligentissimi».
Tanti esseri speciali e molti animali nei suoi film e nei suoi disegni, ma Dio non compare mai?
«Dio è citato tante volte in Mister Tao ma io mi sono sempre tenuto alla larga dalle religioni. Sto leggendo l’ultimo libro di Romana Petri La ragazza di Savannah, è bellissimo, ma cita tanto il Cristo e io da sempre sono convinto che tutti i guai del mondo sono cominciati con la fine del politeismo. Il monoteismo e il volere prevalere di un solo Dio su un altro ha scatenato e scatena ancora guerre. Io credo più in un albero, a un filo d’erba, a una formica, all’energia vitale e alle l’emozioni che, attimo per attimo, mi regala il mistero meraviglioso della natura».