sabato 4 febbraio 2017
Nel 1944 il Duce vendette gli impianti del «Popolo d’Italia», da lui fondato nel ’14. Ma l’acquirente venne «aiutato» dai servizi segreti inglesi con una forte somma
L’imponente edificio de «Il Popolo d’Italia», in piazza Cavour a Milano

L’imponente edificio de «Il Popolo d’Italia», in piazza Cavour a Milano

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Nel grande mosaico della fine di Benito Mussolini si inserisce un nuovo tassello. Esso riguarda un retroscena rimasto sconosciuto anche agli storici. Nell’ultimo scorcio del conflitto, preparandosi all’ormai inevitabile sconfitta, il dittatore vendette segretamente l’unico suo vero patrimonio personale: il giornale Il Popolo d’Italia, che aveva redazione e stabilimenti tipografici a Milano. Salvo la testata, che non fu oggetto di transazione, il Duce cedette l’intero 'pacchetto' all’industriale Gian Riccardo Cella, vicino al senatore e giornalista Alberto Bergamini, monarchico antifascista.

Ciò che riemerge è il ruolo avuto nell’operazione dai servizi segreti britannici, i quali anticiparono a Mussolini una forte tranche del prezzo, centomila franchi svizzeri. Per comprendere la portata di questa novità storica, bisogna però cominciare dalle ragioni che condussero il Duce a trasformare in liquidità il suo polmone finanziario: per l’appunto, il quotidiano da lui fondato nel 1914. Il primo obiettivo di Mussolini era legato alla necessità di sottrarsi alle pressioni di Hitler, che insisteva presso di lui per poter mettere le grinfie sulle rotative del Popolo d’Italia.

In Germania, infatti, i bombardamenti avevano distrutto buona parte degli stabilimenti tipografici, per cui il Führer era allettato dalla prospettiva di trasportare nel Reich gli impianti del giornale mussoliniano, tra i più moderni d’Europa. La cosa non poteva piacere al Duce, il quale incaricò il suo notaio, Umberto Alberici, di ricercare un possibile acquirente dei due complessi del Popolo d’Italia: gli uffici redazionali in piazza Cavour e la tipografia in via Settala. Il compratore venne presto individuato in Cella, incoraggiato a farsi avanti nella trattativa dal senatore Bergamini, e dal presidente del Consiglio del Regno del Sud, Ivanoe Bonomi.

Il notaio Alberici era custode di molti segreti di Mussolini: autenticò copie della sua documentazione archivistica più scottante, tra cui il famoso carteggio Churchill-Mussolini. La corrispondenza tra lo statista britannico e il dittatore entrò nei negoziati per la compravendita del Popolo d’Italia, dal momento che Bonomi insistette su Cella affinché si adoperasse per far cadere il Duce vivo in mani italiane, al momento dell’epilogo. In tal modo la monarchia avrebbe potuto mettere le mani sull’epistolario con Churchill.

Questo spiega perché, nelle ore che precedettero la fuga di Mussolini dalla metropoli lombarda, Cella seguisse da vicino il capo del fascismo, tanto da essere testimone della famosa riunione che si svolse nell’arcivescovado di Milano il pomeriggio del 25 aprile 1945. Il Duce, nel trattare la vendita del Popolo d’Italia, pose soltanto due condizioni: che l’atto rimanesse segreto e che parte della somma gli fosse versata in franchi svizzeri e in contanti. Il compromesso venne firmato il 7 novembre 1944 e il successivo rogito del 1° dicembre completò il passaggio di proprietà.

A svelare gli arcana della vicenda fu l’avvocato Giuseppe Druetti, genero di Cella, a latere del processo di Padova sull’oro di Dongo, che si svolse nel 1957. Il legale prese parte alle udienze nel- la Corte d’Assise patavina in quanto rappresentante di parte civile: lo Stato italiano, infatti, aveva dichiarato non valido l’atto di compravendita del giornale mussoliniano e allora Cella incaricò Druetti di avanzare al processo una richiesta di indennizzo basata su una duplice supposizione: la prima, che i soldi intascati da Mussolini viaggiassero nella colonna fermata a Dongo; la seconda, che quei denari fossero finiti nelle casse dello Stato.

Ma se a Padova si celebrava un processo per la sparizione del tesoro dei gerarchi, ciò stava a significare che i valori sequestrati dai partigiani (sempre ammesso che tra essi ci fossero anche quelli provenienti dal Popolo d’Italia), non furono avocati dall’erario ma vennero saccheggiati. Ragion per cui il povero Cella aveva ben poco da rivendicare. L’avvocato Druetti, a margine del processo, fece però alcune dichiarazioni esplosive, raccolte dalla sola Gazzetta del Popolo di Torino, che le pubblicò l’8 maggio 1957 e da allora non furono più riprese. Alla fine del 1944, cioè al tempo della cessione del quotidiano, Mussolini ricevette assegni per 86 milioni di lire e contanti per centomila franchi svizzeri. In totale, la transazione gli fruttò 109 milioni di lire.

Qual era la ragione della consegna della somma in divisa elvetica? Forse il Duce pensava di far pervenire un fondo di emergenza alla figlia Edda, che fin dal gennaio 1944 era riparata nella Confederazione. O forse c’era dell’altro. L’avvocato Druetti aggiunse una circostanza passata pressoché inosservata: prima di concludere il pessimo affare, Cella pensò di rivolgersi per un consiglio a due maggiorenti della Resistenza, il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della libertà, e Achille Marazza, rappresentante Dc nel Comitato di Liberazione Alta Italia. I due, pur non avendo obiezioni, suggerirono tuttavia a Cella di sollecitare un 'via libera' degli Alleati. L’industriale si recò quindi a Locarno per incontrare il capo del Soe ( Special operations executive) per l’area italiana, John Mc-Caffery; il Soe era la branca operativa speciale dei servizi segreti militari britannici.

E McCaffery fornì garanzie che non poteva rilasciare senza la preventiva autorizzazione di Churchill. In secondo luogo, venendo incontro a una precisa richiesta di Cella, assicurò che gli Alleati si sarebbero astenuti dal bombardare gli impianti del Popolo d’Italia; impegno che fu rispettato. Ma è il successivo intervento di McCaffery a destare sconcerto. Egli infatti anticipò a Cella i centomila granchi in divisa elvetica che l’imprenditore aveva in quel momento difficoltà a reperire. Perché, oltre che a favorire la conclusione della transazione, sir Winston accettò di finanziare il nemico-amico Benito? Secondo Druetti la ragione risiedeva in un appello scritto che, nell’ultima parte del conflitto, Churchill avrebbe inviato al Duce per convincerlo ad abbandonare i suoi progetti di una pace separata tra le forze dell’Asse e la Russia.

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