Il filosofo Josep Maria Esquirol - Imagoeconomica
Nella notte di senso che ci circonda, in cui l’uomo sembra conoscere solo il linguaggio del conflitto e della violenza, dell’umano manca comprensione. È la grande crisi del nostro tempo, segnato dal dominio degli schermi, del flusso di informazione che ci travolge e in cui tutto è indifferenziato e indifferente: come i nostri ragazzi davanti al passaggio indistinto delle immagini e dei contenuti sui social network, eccoci condannati all’omogeneità in cui nessuno più cresce, cammina, si muove. Nella disponibilità tutto diventa trasparente e l’educazione – la formazione – collassa. È un’analisi spietata e straordinariamente attuale, quella che il filosofo catalano Josep Maria Esquirol propone nel suo ultimo libro La scuola dell’anima (Vita e pensiero, pagine 197, euro 16,00), u n viaggio di andata e ritorno alle radici dei nostri sistemi educativi per rimetterne a fuoco le fondamenta e gli obiettivi. A cominciare dai luoghi in cui la scuola si fa e dalle persone che la scuola la fanno (o dovrebbero farla) nel miracolo dell’incontro e della prossimità.
Aule raccolte come oasi in un tempo e in uno spazio «altri», «bravi» maestri. Ci sono condizioni senza cui lei è fermamente convinto non si possa parlare di scuola...
«È così. Considero il luogo dell’istruzione, cioè il luogo in cui si diventa essere umani , come un luogo altro, un’altertopia: si tratta di uno spazio di resistenza a quello che domina e in cui si coltiva la differenza rispetto a ciò a cui le forze egemoniche di volta in volta vorrebbero ci adattassimo. In questo luogo altro che è la scuola – dove deve esserci anche un altro tempo, un tempo dilatato in cui guardare le cose e comprenderne il senso – nascono e crescono anche relazioni. Quella col maestro è decisiva: è lui che mostra il mondo ai suoi allievi, è lui che ha il compito di contagiarli con la passione per le cose belle del mondo. Il bravo maestro confida e affida il mondo ai suoi allievi».
Nelle forze egemoniche di questo nostro mondo lei identifica soprattutto la tecnologia. È un attacco tout court?
«Tutt’altro. Non pongo un problema intrinseco sull’essenza della società tecnologizzata e della tecnologia, non ne faccio una critica. La mia critica è al dominio della tecnologia. Quando qualcosa domina siamo davanti a un totalitarismo: quella cosa diventa, cioè, totale e a sé tutto riduce rendendolo omogeneo e indifferenziato, e rendendo anche noi indifferenti, freddi. Noi viviamo nell’era del dominio della tecnologia, dove tutto è schermatizzato per renderci immediatamente e istantaneamente informati, aggiornati: la tecnologia è diventata il nostro modo di pensare e persino il nostro linguaggio, il nostro modo di rappresentare la realtà. È come se tutto fosse disponibile, strumentalizzato, si cerca risultato, successo, non a caso queste parole sono entrate anche nella scuola, dove sempre più spesso incontriamo “valutazioni”, “competenze”, “rendimenti”, “crediti”. La crisi dell’umano che stiamo vivendo sta tutta qui: siamo fermi, chiusi su noi stessi, abbiamo e studiamo scienze umane ma non camminiamo più. Siamo informati su tutto, ma non c’è più formazione. L’esperienza della vita sta invece nella diversità, nell’imprevedibilità e nella meraviglia, nello stupore. Pensiamo all’amicizia: l’amicizia non è il risultato di una tecnica, ma di un incontro e di un cammino».
La scuola d’altronde è per eccellenza il luogo dell’amicizia e della compagnia. Lei la paragona a un sagrato, cosa intende?
«Che non vi si può tollerare alcuna violenza reale. Se, attraversata la soglia d’una scuola, un bambino o un ragazzo per un motivo o per un altro viene minacciato, disprezzato, maltrattato, ignorato o schernito, lì non c’è scuola. La scuola, come le chiese che verso la fine del Medioevo garantivano la sicurezza dei contadini contro l’estorsione feudale estendendo un cerchio di protezione che si estendeva oltre le loro mura, è una chiazza di pace: se di queste chiazze ce ne fossero abbastanza, con il loro influsso sui luoghi confinanti la pace si estenderebbe ovunque. Chiazze di pace sull’orizzontalità della terra, fino a trasformare la terra in un immenso sagrato».
In questo senso a scuola si deve anche restare. Non finisce, la scuola...
«Si deve continuare a camminare, sì, e la scuola è il buon cammino della vita. L’educazione aiuta a restare in un buon cammino, cioè a crescere guardando a un orizzonte di senso: la maturità non la raggiungiamo mai, la pienezza non è di questo mondo. Quello che conta è il senso. Ogni persona –e qui faccio una definizione dell’umano – è una profondità aperta: questa apertura va coltivata sempre. Se a scuola si comincia a studiare le cose del mondo, anni dopo, nella scuola della maturità, si coltiva l’attenzione alla rivelazione del mondo e alla risposta che tale rivelazione richiede. Incontriamo la bellezza, incontriamo il male e la sofferenza, incontriamo una realtà in movimento come noi e che siamo chiamati a plasmare. Nel buon cammino di senso, la risposta davanti a queste sollecitazioni è il bene: la cura del creato, dell’altro e del futuro. Ciò che ci rende pienamente umani».