Pensieri, desideri, progetti, timori. Fissati sulla carta e trasmessi a familiari, amici, colleghi, interlocutori nella vita intellettuale come nelle decisioni pratiche. Lettere dai registri confidenziali, emotivi, o corrispondenza di lavoro, a riflettere vicende note o sconosciute. Documenti che rispecchiano legami, schegge biografiche e tappe di una formazione – tra ambienti familiari e culturali, studi e insegnamento, corsi, pubblicazioni, convegni, mai estranei però alle concomitanti esperienze di una quotidianità gravida di interrogativi. Tutto sullo sfondo di un ’900 attraversato dagli anni ’20 alla fine dei Cinquanta: passando dalle conseguenze del primo conflitto mondiale al secondo, sino alla cosiddetta Guerra fredda.Troviamo questo ed altro ancora nei carteggi di Federico Chabod con i suoi maggiori corrispondenti, quelli cui era legato da vincoli di amicizia (da Carlo Levi a Gaetano Salvemini), di collaborazione (da Giovanni Gentile a Franco Venturi), editoriali (da Alberto Pirelli ad Antonio Giolitti), politici (da Ugo La Malfa ad Alcide De Gasperi), ora pubblicati a cura di Margherita Angelini e Davide Grippa (Caro Chabod .La storia, la politica, gli affetti 1925-1960, Carocci, pp. 454, euro 43). Nella prima parte del corpus epistolare è l’influenza esercitata su Chabod a emergere.Quella di Piero Gobetti, alla luce di queste lettere più profonda di quanto sin qui immaginato e anche oltre l’insistenza con cui lo storico sostenne, specie nei primi scritti machiavelliani, l’assenza di unità morale nel popolo italiano (non a caso in una lettera a Sapegno del 5 febbraio 1927, in occasione del suicidio del gobettiano Piero Burresi, Chabod commentava: «Un altro di noi che se n’è andato»). Quella di Salvemini (nel quale Chabod vide a lungo il padre mancato prematuramente: «Io mi considero ancora un po’ come suo figliuolo», così il 12 agosto 1926), diventata poi sintonia di fronte al regime fascista; questo anche il senso della collaborazione di Chabod all’espatrio clandestino di Salvemini, da mettere accanto al dramma interiore del giovane valdostano al rientro in Italia dopo gli studi in Germania («Me ne vado molto tristemente: ho sempre amato, e amo tutt’oggi con un profondo sentire la mia terra e le mie montagne, ma se penso in quale atmosfera devo riprendere, mi sento scoraggiato e triste» (così nella medesima lettera a Salvemini).Ma da registrare vi è pure l’influenza della madre, rimasta vedova, che scriveva a Federico esigendo eccellenza professionale e morale («Desidero anzitutto che voi, o miei figli, siate oltre che dei valentuomini, dei galantuomini...», così il 20 dicembre 1932). A seguire ecco – leit motiv nelle missive – l’impegno tenace portato avanti dallo storico con fatica e rigore. Dagli anni della dittatura e negli spazi ristretti delle istituzioni culturali fasciste – l’università, l’Enciclopedia Italiana, le case editrici, gli Istituti (e le lettere inedite scambiate con Codignola negli anni Venti sono significative del modo in cui Chabod visse, fin dall’inizio, il suo lavoro di intellettuale), sino all’abbandono della cattedra universitaria per vivere pienamente la Resistenza in un bisogno assoluto di coincidenza fra vita morale e azione politica.E poi nel dopoguerra, quando la conoscenza storica costituì il punto di riferimento morale di Chabod, da additare ai suoi allievi insieme alle modalità per la ricerca; una conoscenza che doveva dare agli uomini maggior consapevolezza e senso della realtà. Ma, nei carteggi appena pubblicati, ecco anche la «superficie sociale» sulla quale allo storico toccò muoversi, confrontandosi con opportunità, imposizioni, divieti, che ogni volta gli avrebbero incanalato la vita, irrobustendo o sfaldando il groviglio delle sue relazioni e aspirazioni. «Che sarà di noi, del nostro Paese, di tutto ciò che ci e caro? A pensarci, a volte vien freddo e ti senti invadere da uno sconforto senza nome: ma bisogna reagire […]. Se vorremo, potremo risorgere: ed è dovere anzitutto di noi, uomini di studio, di lavorare perché questo volere ci sia, nei giovani almeno a cui è affidato il compito arduo! Avanti, quindi, con coraggio e fede»: così Chabod a Ernesto Sestan il 2 febbraio 1944.
Insieme a questo rigore, emerge anche la capacità diplomatica chabodiana: una fusione di autorevolezza e disponibilità all’ascolto, persino di interlocutori sgradevoli. Abilità messe talvolta a dura prova: come per la preparazione del Congresso mondiale di scienze storiche a Roma nel 1955 e la gestione delle conseguenze dell’invasione dell’Ungheria, che gettavano la loro ombra anche sulla storiografia e la sua dimensione cosmopolita, che non può conoscere frontiere ideologiche ma deve rispettare i principi fondamentali.In una lettera del 7 novembre 1956, non destinata alla circolazione, Chabod con riferimento all’Unione Sovietica ribadiva l’indisponibilità a piegarsi di fronte a comportamenti ritenuti inaccettabili. La collaborazione scientifica, sempre auspicabile, è impossibile quando si tratta «di una questione essenziale di moralità umana, sulla quale, al contrario, tutto il mondo deve convenire ed essere d’accordo in via preliminare, se si vuole collaborare anche sul piano strettamente scientifico». Era importante capire, secondo lo storico, «se il diritto fondamentale, degli individui e delle nazioni, di scegliersi la strada che vogliono, costituisce il punto di partenza obbligatorio, indispensabile affinché uomini con convinzioni politiche, idee scientifiche differenti e anche decisamente opposte, possano, ciò nondimeno, collaborare insieme sul piano internazionale in vista di qualche realizzazione comune. È sì o no, che oggi è necessario rispondere».Recandosi in Unione Sovietica per l’assemblea generale non solo si sarebbe conferito prestigio agli storici sovietici «e attraverso loro, all’Urss», ma si sarebbero «di fatto e formalmente" sostenuti" i massacratori dell’Ungheria», notava Chabod in una lettera del 7 novembre 1956 a Michel François. Per questo decise che non sarebbe «mai» andato a presiedere in Russia, e pur rendendosi conto della «gravità» della sua scelta, concluse: «Questa gravità non è altro che un pallido riflesso della gravità degli avvenimenti ai quali assistiamo».