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Nel numero 10 del supplemento Gutenberg – intitolato Tracce di Dio – vari studiosi sono intervenuti sul tema del rapporto tra scienza e fede. Quale contributo alla discussione, può essere utile soffermarsi su due questioni differenti ma collegate: in che senso possiamo dire che la teoria scientifica del Big Bang sia corroborata dai dati e in che modo possiamo intendere le cosiddette prove dell’esistenza di Dio.
Per quanto riguarda la teoria del Big Bang, non si tratta qui di spiegarne la tenuta scientifica o il tipo di considerazioni che la sostengono. Però si può ricordare che esistono dei risultati, come ad esempio un teorema di Malament del 2009, che mostrano come la teoria cosmologica sia strutturalmente “sottodeterminata” dai dati. Da un punto di vista generale, relativo a una qualsiasi teoria scientifica, il problema è noto e relativamente semplice: la quantità di dati a disposizione non determina in modo univoco la struttura della teoria. Per capirlo possiamo immaginare di fare un esperimento su un minerale fittizio, l’artificialite, rielaborando un esempio di Quine.
In un primo esperimento supponiamo che qualcuno abbia scoperto che questo materiale, solido a temperatura ambiente, diventa liquido a 82°C. Tuttavia, al momento di replicare i risultati in un altro laboratorio, l’artificialite non fonde a quella temperatura, ma richiede 105° C. La nostra microteoria scientifica – l’artificialite fonde a 82°C – sembra smentita dai fatti: è quindi falsa e dovremmo abbandonarla? Prima di procedere oltre, lo scienziato rigoroso prova a ripetere nuovamente l’esperimento per escludere fattori imprevisti che potrebbero aver influenzato il risultato: controlla per esempio che l’apparecchio per la misurazione sia tarato a dovere e funzioni bene, che il campione di artificialite abbia lo stesso grado di purezza del primo, e così via. Si assicura insomma che una serie di ipotesi accessorie siano vere. Anche quando avesse scoperto che le cose stanno così, potrebbe comunque ancora difendere il primo risultato ipotizzando qualche cambiamento in una porzione di scienza più ampia.
Questa situazione viene normalmente definita “sottodeterminazione” empirica delle teorie: i risultati degli esperimenti non possono da soli dire se la teoria è sbagliata oppure no. Ci dicono piuttosto che qualcosa non torna: sta a noi e al nostro ingegno capire che cosa effettivamente vada cambiato. È una situazione del tutto normale nella scienza: il risultato di Malament relativo alla teoria cosmologica (più precisamente, alla struttura globale dello spazio-tempo) aggiunge che non c’è nessun esperimento in grado di indicarci quale teoria potrebbe essere sbagliata. Sulla base dei dati, insomma, possiamo costruire modelli cosmologici diversi, incompatibili tra loro. È un problema? Solamente se pensiamo che l’unico criterio di razionalità sia quello della pratica scientifica, se crediamo insomma che una domanda razionale ammetta solo risposte fondate su prove scientifiche.
La domanda cui cerchiamo risposta è prima di tutto filosofica: che cosa sono lo spazio e il tempo? Il modo in cui le teorie scientifiche ci costringono a rimodulare i concetti non può nascondere il fatto che, comunque, la questione che ci poniamo è metafisica; riguarda cioè la nostra concezione del tempo e dello spazio e il modo in cui riusciamo, per così dire, a “farcene una ragione”.
Che cosa ci dicono le “prove” dell’esistenza di Dio? Dio esiste o no? In un caso e nell’altro le argomentazioni non sono conclusive. Esse ci invitano, però, a riflettere sul tipo di razionalità che accettiamo. Come ha ben sottolineato MacIntyre in un volume del 2009 (God, Philosophy, Universities), la differenza tra il teista e l’ateo non riguarda l’enunciato “Dio esiste”. Il punto non è che il primo crede che l’enunciato sia vero, mentre il secondo crede che sia falso. La differenza reale riguarda gli standard di razionalità: per il teista è ammissibile riflettere razionalmente sulla domanda “l’universo è stato creato da Dio?”, mentre per l’ateo questa domanda non può essere nemmeno posta. Il teista ritiene che la domanda circa l’esistenza di Dio sia razionale e cerca una risposta altrettanto razionale; l’ateo espunge la domanda per avvalersi di una razionalità “puramente” scientifica. Molte cose passano per questa differenza: per esempio, discutere la fede appartiene allo spazio pubblico – come ha affermato papa Francesco lo scorso 15 dicembre in Corsica – o riguarda aspetti a cui ciascuno pensa per conto proprio? Ancora: è ammissibile che all’università si compiano studi teologici? O è contrario alla ragione stessa, una “cosa da pazzi”, per dirla in modo colloquiale?
La domanda su Dio, insomma, ci costringe a riflettere sullo spessore e l’ampiezza del nostro concetto di razionalità. È chiaro che una riflessione di questo tipo ha uno spessore teologico, ma il problema resta, alla radice, filosofico: parlare di Dio significa dire anche qualcosa sull’umano?
Come si vede, le due questioni sono in certa misura analoghe. Il discorso sulla fede e quello sulla scienza ci costringono a riflettere in ultima analisi sull’umano e sulle coordinate fondamentali della vita, ivi compresa la capacità di pensare. Forse da queste riflessioni può venire un aiuto a meglio situare la questione, oggi fin troppo dibattuta, di che cosa possa essere un’intelligenza “artificiale”.