lunedì 7 aprile 2025
Forme, gesti, spazi, ritmi, riti e consuetudini mutuano la carne dalla nostra prospettiva: il corpo è lo spunto che definisce il metodo, le provocazioni, l’invito alla partecipazione, la condivisione
Leonardo Da Vinci, Studio proporzionaledi corpo maschile (“Uomo vitruviano”), 1498

Leonardo Da Vinci, Studio proporzionaledi corpo maschile (“Uomo vitruviano”), 1498 - Venezia, Gallerie dell'Accademia

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Il cristianesimo offre una lettura inedita, dinamica e dirompente della corporeità come tramite decisivo tra essere e mistero, via d’accesso e contatto, speranza e promessa, parto laborioso e risorsa ultima. Non uso il termine “rivelazione”, oggi particolarmente inappropriato a calare nell’alzo zero della esperienza quotidiana la natura di un evento che fa di tutto per nascondersi, apparizione ambigua e intermittente dall’adesione libera e azzardo mai risolto. “Corpo” suona decisamente meglio, minimo comune multiplo della realtà e certificazione di singolarità uniche, espediente operativo della parola e campo di battaglia su cui giochiamo i nostri destini espandendone i confini, contraendone le funzioni, proiettando verso gli altri l’ansia del compimento urgente e indefinito cui è negata la parola fine. Corpo è l’edificio, corpo la fisicità dell’esistente, corpo è la città dei vivi e dei morti, il simbolo, l’assemblea, il noi che non sottrae il volto al volto peculiare di ciascuno. Il convegno internazionale “L’edificio di culto e gli artisti: bilanci e prospettive”, tenutosi a Roma nel febbraio scorso presso la Pontificia Università Gregoriana e la Pontificia Università della Santacroce, ha restituito lo scorcio articolato del rapporto attuale tra arte, architettura e sacro. E il corpo ne è il perno fondamentale, il come ci si pone di fronte alla questione. È lo spunto che definisce il metodo, il tracciato di avvicinamento, le attitudini, le provocazioni formali, l’invito alla partecipazione, il modo di condivisione. Forme, gesti, spazi, ritmi, riti e consuetudini mutuano la carne dalla nostra prospettiva al riguardo, ne danno conto, ne assumono le fattezze. Il corpo di ciò che realizziamo è rivelatore del corpo che siamo, nel bene e nel male. La distorsione avviene quando il corpo si declina in ideologia, semplificazione che sopprime il coinvolgimento barattandolo per slogan e entusiasmi tanto rapidi a sorgere quanto a svanire nel loro contrario, flash mob di gruppo devozionale, per intendersi, dalla comunicazione ovvia e incidenza pressoché nulla sul progresso interiore delle persone. Identificare la deriva ideologica con un particolare ambito è un errore. Possono essere ideologiche la fede popolare come le vette della teologia più raffinate, il santino devozionale come le spettacolari architetture parametriche adattate al sacro monumentale che pretende di imporre la sua presenza nel censimento delle realtà urbane. Ideologia è il corpo cruciale declassato a riduzionismo precettistico agevole da maneggiare, che inibisce approfondimento, trasporto, inquietudine. Soprattutto inibisce il dubbio, bene insostituibile per la ricerca spirituale e il pensiero. La funzione dell’edificio sacro che accoglie il corpo del mondo è offrire soluzioni o suggerire domande cui le liturgie offrono l’approdo di un gesto sempre attuale e sempre da rinnovare? La fede, dal mio punto di vista, non è un distributore di certezze. Se prendiamo in considerazione le realizzazioni visive, architettoniche, scultoree, musicali e perfino letterarie riconducibili al sacro risulta chiaro che in molti casi sono concepite come prontuari illustrati le cui narrazioni sembrano ignorare duemila anni di riflessione mistica e artistica. Un modo che con il mondo attuale perde definitivamente di senso, se mai ne ha avuto. Una ragione è da ricercare nella fisionomia della contemporaneità, digitalmente globalizzata, insieme scettica e contestualmente credulona, perennemente instabile, impermeabile se non refrattaria alla ripetizione di pattern stilistici intrinsecamente deboli e narcosi descrittive desuete e oleografiche che confondono la evidenza narrativa con una idea ornamentale e confortante di verità. Oggi, più che una serie di immagini alla maniera di questo o quello raffiguranti il battesimo di san Giovanni o la caduta di sulla via di Damasco, servirebbe l’incontro con una traduzione vibrante di quell’acqua e di quel fulmine, ambienti e forme che aiutino a cadere da cavallo chi entra nel luogo sacro costringendolo a cercare il suo cammino attraverso un coinvolgimento più profondo. Sono costituzionalmente allergico alle pedagogie che troppo spesso, nella pratica praticata, sanciscono contrapposizioni forzose cui porre rimedio con l’allineamento normativo tra le parti, non sempre consensuale e maturo. Un po’ come la evangelizzazione degli indigeni da parte dei conquistadores, in chiave meno cruenta. Se si ritiene necessario il percorso pedagogico, non solo all’interno di un edificio sacro ma in ogni contesto, io credo vada cercato nell’itinerario esperienziale-osmotico, non in surrogati normativo-didascalici costellati di espedienti grossolanamente esplicativi. All’allineamento normativo, alla dimostrazione che si crede di poter forzare in stile graphic novel, alla consolazione spicciola di raffigurazioni che guardano molto da vicino la superstizione, andrebbero sostituite condivisione, compromissione, rischio, sfida ad indagare, interrogare e interrogarsi. Si dice che il luogo sacro e i suoi simboli debbano essere comprensibili, immediati alla lettura. Se da un lato è un argomento che non si può liquidare del tutto, dall’altro la sua applicazione tout court (ambita da molti perché genera sempre facile consenso) sdogana un contesto di finzione mediata in superficie che diventa protagonista della contemplazione, il sostituto comodo del mistero, metonimia falsata del corpo rinnegato per un immaginario su misura dal consumo agevole e rassicurante. Per converso, in altri contesti che si autodefiniscono implicitamente culturalmente elevati, la decifrabilità si trasforma nel riflesso asimmetrico del modello scientology, per cui la forma si compiace di una certa innegabile sofisticazione che congela il contenuto nella confezione estetizzante-asettizzata che tutto fa tranne trasmettere corporeità e presenza, indipendentemente dalle suggestioni utilizzate. Il corpo non è la figura, anche se la figura può esserne manifestazione, la luce non è banalmente la luce fisica ma il travaglio di un passaggio agognato e detestato attraverso cui si intuisce, senza poterla vedere, l’eventualità di una rinascita.

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