mercoledì 19 febbraio 2025
A 67 anni dalla legge Merlin fa discutere la decisione di Bruxelles di regolamentare il «sex work» per chi è dipendente. Un rapporto senza reciprocità però è sempre violenza
Una prostituta su un marciapiede delle nostre città

Una prostituta su un marciapiede delle nostre città - .

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Lina Merlin le chiamava “le sventurate” e in questa espressione c’è tutta la tenerezza e insieme lo sdegno di una madre che patisce per l’orrore a cui sono sottoposte le sue figlie. Che a centinaia scrissero alla senatrice veneta durante il lungo e faticoso iter per l’approvazione della legge che porta il suo nome e che nel 1958 chiuse le cosiddette “case di tolleranza”.

Le ragazze nelle lettere all’esponente socialista raccontavano le loro misere storie, confessavano la preoccupazione per lo stigma che avrebbe precluso loro qualunque futuro alternativo e le chiedevano di aiutarle, una volta “fuori”. «Siamo giovani e sembriamo delle vecchie e solo per il fatto che non prendiamo mai aria buona siamo quasi tutte gialle in faccia. Mettiamo i belletti per tirarci su ma se ci vedesse quando ci alziamo! Faremmo pena a tutti meno che a quelli che ci guadagnano su di noi». «Si dice tante volte in giro che non siamo obbligate a entrare nella vita. Non è vero: siamo peggio che obbligate. Tante volte sono dei luridi sfruttatori che costringono a darsi al prossimo, tante volte è la fame, e altre volte è il bisogno di soldi per poter mantenere la famiglia, o i figli, o il marito malato, eccetera. Ma sempre sono gli altri ad obbligarci a entrare in questi inferni, a ricevere 30-35 uomini al giorno, i vecchi sporcaccioni e i giovani infoiati, e quelli ubriachi, e quelli che gridano, e quelli che vogliono sentir parlare. Tutta questa gente paga per averci, come bestie al mercato. Perché, e per quanto dovremo sopportare questa vergogna?». «Distinta senatrice, sapesse cosa vuol dire andare ogni giorno con venti trenta uomini che tante volte sono così stanca e con tanta nausea che vorrei sputare in faccia a quelli che mi cercano. Però ho un figlio di mantenere e devo fare queste cose per forza».

Questi tre brani sono tratti da Lettere dalle case chiuse, raccolte e pubblicate nel 1955 dalla stessa Merlin e da Carla Barberis, che altri non è se non la moglie di Sandro Pertini con il cognome della madre. La parlamentare socialista – una delle uniche tre donne elette nel 1948 al primo Senato della Repubblica – impiegò 10 anni a far approvare la “sua” legge; una legge di avanguardia, ancora oggi attuale nonostante gli attacchi periodici e le proposte accumulate in Parlamento per ripristinare sotto forma più contemporanea le “case chiuse”. Proprio domani, 20 febbraio, la legge Merlin compie 67 anni. E la padovana Angelina detta Lina non sarebbe felice di sapere che in Belgio il Parlamento ha approvato la prima legge che regola i contratti da dipendenti per i cosiddetti “sex workers”, che nella stragrande maggioranza dei casi si declinano al femminile, “lavoratrici del sesso”.

In via preliminare va detto che l’espressione “sex work”, pur essendo intenzionalmente asettica cela in realtà una visione molto precisa della prostituzione come “libera scelta”, come “lavoro retribuito” e proprio per questo non è affatto condivisa da una larga parte del mondo femminile e femminista. Come ci può essere lavoro, infatti, se il “luogo” in cui esso si esercita e nello stesso tempo ne è l’oggetto è il corpo delle donne?

In ogni caso, la legge approvata in Belgio il 3 maggio 2024 ed entrata in vigore il primo dicembre dell’anno scorso riguarda l’organizzazione imprenditoriale della prostituzione e l’inquadramento contrattuale delle prostitute “dipendenti”, non la prostituzione “volontaria” e “individuale” che nel Paese non è sanzionabile, così come in Italia. Il contratto è stato elaborato per far sì che siano rispettati alcuni diritti della “dipendente”, in particolare di rifiutare un cliente o prestazioni specifiche e di interrompere l’attività in ogni momento anche in presenza di un accordo precedente. Senza questo contratto, il “datore di lavoro” potrà essere accusato di sfruttamento della prostituzione. Il contratto non riguarda i casi in cui non c’è contatto fisico tra cliente e lavoratore, quindi tutto ciò che passa attraverso il web, compreso la pornografia. Possono essere “assunte” le persone maggiorenni ma non quelle che studiano, non sono ammessi contratti flessibili o occasionali né di somministrazione mediante terzi né l’esercizio a domicilio, ma possono essere stipulati contratti a tempo pieno o parziale, determinato o indeterminato. Ci sono poi molte clausole relative al pagamento, alla rottura del contratto, alle forme giuridiche che deve avere il datore di lavoro (sì a un ente senza scopo di lucro, no a una persona fisica). Alcune disposizioni sfiorano il grottesco, come quella per cui se la lavoratrice rifiuta la prestazione più di 10 volte in sei mesi, l’imprenditore e la stessa lavoratrice possono chiedere l’intervento dell’Ente di controllo del benessere al lavoro (Cbe). La consapevolezza che si tratta di un “lavoro” altamente rischioso e che le donne una volta “pagate” sono alla mercé dei clienti, peraltro, è dato dal fatto che il contratto prevede l’installazione di un bottone d’emergenza nel luogo di esercizio e la presenza di una persona in grado di intervenire immediatamente in caso di attivazione dell’allarme.

Del resto cos’altro è un rapporto sessuale senza reciprocità se non violenza? E difatti “stupro a pagamento” è la drastica definizione che dà della prostituzione, anche di quella “volontaria”, la sopravvissuta Rachel Moran, il cui libro-denuncia è ormai diventato un punto di riferimento per tutti coloro che si occupano del tema (Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, 2017, Round Robin editrice). E in Italia che si dice del contratto di “lavoro sessuale” alla belga? «Svolta storica», giubila l’associazione Certi Diritti, e così anche il Comitato per i diritti civili delle prostitute (Cdcp). Tra le poche voci che in Italia si sono alzate per dire che no, vendere il proprio corpo per denaro non può essere considerato un lavoro, come non lo potrebbe mai essere vendere una parte di esso, ad esempio un rene, c’è quella di Alessandra Maiorino, senatrice pentastellata, che da anni combatte ogni tentativo di ri-legalizzare le case chiuse, quelle che peraltro ormai raccolgono il grosso della prostituzione che dopo il Covid si è trasferita dalla strada agli appartamenti, ma che non per questo ha perso i suoi connotati di sfruttamento.

Maiorino è membro del Consiglio d’Europa e lo scorso ottobre si è opposta, con successo, all’approvazione da parte dell’Assemblea di una risoluzione che raccomandava a tutti i 46 Paesi membri, Italia compresa, di seguire l’esempio del Belgio, visto come un modello per «dare accesso alle lavoratrici del sesso alla previdenza sociale e a una situazione di dignità e di sicurezza» e «per eliminare le aree grigie in cui possono prosperare le attività criminali». Niente di più falso, suggerisce Maiorino, e porta l’esempio della Germania dove il modello dei bordelli legalizzati ha dimostrato il suo tragico fallimento. Dovevano essere, appunto, il luogo della legalità e della sicurezza, e invece sono diventati la nuova mecca della criminalità organizzata e della tratta delle persone: se le prostitute legali sono 28mila, si calcola che nelle case chiuse esercitino in modo illegale tra le 250mila e le 600mila persone, in massima parte giovani donne povere, trafficate dai Paesi dell’Est.

Se qualcuno poi avesse la tentazione di ingaggiare una battaglia parlamentare per introdurre il modello neo-liberista in Italia, Maiorino ricorda la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 che ha sancito che la prostituzione non può ritenersi ricompresa nella libertà sessuale e soprattutto che è in contrasto con la dignità umana. Del resto, la pari dignità tra uomo e donne, stabilita nella sua Costituzione, fu uno dei motivi per cui la Francia chiuse i bordelli, già nel 1881 nei Comuni e i Dipartimenti e nel 1946 a Parigi. Che la domanda di sesso a pagamento sia l’espressione per eccellenza del patriarcato, e che per questo è ingiusto, diseducativo e discriminatorio considerarlo un “lavoro” è convinta anche Esohe Agathise, fondatrice e direttrice di Iroko, un’associazione onlus nata nel 1908 che sostiene le donne in uscita dalla tratta. «Dobbiamo riconoscere che la prostituzione è dannosa non solo per le singole persone ma per la società. La prostituzione legalizzata lede la parità di genere, mettendo uomini e donne su due piani diversi e dividendo le stesse donne in due categorie: quelle che possono essere sottoposte a violenza legale, e quelle “pulite”».

A chi eccepisce che il modello abolizionista ante litteram introdotto in Italia dalla Legge Merlin, con il suo richiamo alla inviolabilità del corpo femminile, sia anacronistico visto la diffusione della “professione” di escort, sia in presenza che sui siti dedicati, Agathise risponde che a ogni regola corrisponde un’eccezione. «Chi mette in vendita il suo corpo convita di esercitare una propria libertà è una esigua minoranza, ma la stragrande maggioranza lo fa non per scelta ma per le circostanze in cui si trova a vivere». Esattamente quello che scrivevano “le sventurate” alla senatrice Merlin e che dovrebbero leggere (anche) i tanti uomini che alimentano la domanda di sesso a pagamento. Una ferita della società, il fardello sulle spalle delle donne più antico del mondo. Mai un “lavoro”.

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