La cantante Alice - Massimo Gardone
Dall’alba dentro l’imbrunire al sole nella pioggia. Se si parla di Carla Bissi, in arte Alice, si sa che non si può prescindere da Franco Battiato. Tanto meno di fronte a un traguardo, quello dei 70 anni, che la grande artista ha deciso di celebrare con un’intensa autobiografia corredata da splendide fotografie. Il suo cammino umano e artistico è così raccolto ora nel libro L’unica via d’uscita è dentro (Rizzoli Lizard, pagine 256, euro 29.00), intitolato con l’emblematico verso di un suo brano e del relativo album del 1998, Exit. «E’ stata un’idea di Francesco Messina (da quarant’anni suo compagno di vita e partner artistico, ndr) che ha estrapolato quel verso come ideale sintesi del senso profondo della mia vita e del mio percorso personale e musicale». Di Messina sono anche la parte grafica (da art director, nonché musicista, ha curato da metà anni 70 le copertine di diversi dischi di Battiato, ndr) e alcuni interventi tra i vari capitoli. «Sono una di campagna. E mi piace ancora esserlo. Il resto è venuto dopo» scrive a mo’ di epigrafe in apertura la cantante, compositrice e pianista nata il 26 settembre 1954 a Forlì. Indicando così direzione e matrice di un percorso inscindibile dalla naturalità, propria e universale. «Io sono certa che l’unica via da seguire sia quella indicata dalla propria interiorità. Tutti prima o poi dovremo passare da lì. Lo scopo della nostra vita è elevato, è anche un riconoscimento della nostra natura essenziale. Ma evidentemente per ognuno ci sono tempi diversi per acquisire questo tipo di consapevolezza». Carla, lanciata con il nome di Alice Visconti per i primi due album del ’75 e del ‘78, diventa semplicemente Alice quando incontra il produttore Angelo Carrara che le fa incontrare Battiato, appena approdato al pop con L’era del cinghiale bianco dopo quasi un decennio di musica sperimentale.
È stato con Battiato il momento della svolta?
«Sì, è stato lui nel 1980 a darmi per la prima volta l’opportunità di cantare le canzoni che scrivevo. Io gli avevo dato un’audiocassetta con alcuni miei pezzi e lui mi disse: ci vediamo tra un anno per un disco insieme. Così è nato l’album Capo Nord con il grande successo de Il vento caldo dell’estate brano da me scritto con Franco e Giusto Pio a partire da un arpeggio di Francesco Messina. Loro si conoscevano e collaboravano già da tempo».
Al suo primo grande successo è legato anche un singolare ricordo...
«Di rammarico, ma con una importante lezione ricevuta. Dovevo cantare il brano al Festivalbar, all’Arena di Verona, in playback. Quindi senza nemmeno l’ansia della prestazione canora. Per farmi comunque coraggio mi ero prefigurata lo svolgimento. Fu un grave errore perché finii per non vivere quei minuti nella loro semplice realtà. Non colsi l’attimo e mi impedii di goderne pienamente. Imparai la lezione. Il presente è ciò che conta, tutto il resto non esiste. E’ solo dannosa preoccupazione».
Eppure ora ha messo nero su bianco proprio dei ricordi.
«Ma proprio rileggendo questa ricapitolazione della mia vita ho avuto ulteriore conferma che quanto vissuto pienamente non diventa mai passato, perché è dentro. Un meraviglioso mistero che cancella spazio e tempo».
Qual è stato il filo rosso della sua carriera?
«Fare musica e cantare con una sorta di sacralità. Non nel senso che la musica sia sacra, ma come ricerca del sacro nella musica. Non qualcosa di circoscritto dunque, ma quella sacralità presente nel tutto, nell’universale e nella vita stessa. Un’esigenza che nello specifico si è poi tradotta anche in un progetto live e discografico intitolati God is my dj. Nel libro parlo di lavori in corso della propria anima, ciò che ci consente di approfondire e di trovare la dimensione del sacro nelle diverse forme».
Il suo libro è intriso di gratitudine.
«Sì, a partire dal dono del canto. La musica è stata assolutamente la mia salvezza. Un dono ricevuto attraverso la voce, che a dodici ho anche dovuto faticosamente riconquistare dopo lo spavento quando qualcuno mi spinse e io finii quasi sotto a un treno a un passaggio a livello. E sono grata per gli incontri. All’inizio della carriera anche subiti, poi nel corso degli anni sempre più consapevoli e arricchenti. Grazie alla musica ho potuto comprenderne appieno il senso. Sono il sale della vita».
Ha dovuto difendersi spesso?
«Diciamo che ho sempre preteso il rispetto».
E se non c’è “è un bel casino”, disse alle telecamere al Festival dell’81 quando vinse con Per Elisa...
«Be’, avevo usato un’espressione un po’ forte (ride, ndr). Quei giorni a Sanremo erano stati agitati, il tipico clima insomma»
Ma molto di più si arrabbiò quando un sedicente amico di Battiato pubblicò online dei versi in cui diceva che non era più in grado di riconoscerlo.
«Sì, mi sono molto arrabbiata per quello sciacallaggio sulla sua malattia. Ma ci sono state anche altre persone insospettabili che si sono permesse di dire delle cose oltretutto non vere. Un amico autentico di fronte a una vicenda così privata se ne sta zitto. Franco poi era una persona talmente amabile che faceva sentire chiunque amico. Era molto accogliente e si metteva sempre a livello dell’altro, qualsiasi livello fosse. Questo ha fatto sì che alcune persone si sentissero in diritto di dire delle cose soltanto per mettersi in mostra, speculando sul dolore e violando la riservatezza».
Che eredità ha lasciato Battiato?.
«Franco ha lasciato un vuoto immenso, ancor più in chi lo ha amato e gli era amico. La sua presenza, con la sua musica, è stata un autentico dono, lui si è reso strumento. È stato un aggregatore, ha calamitato arte e conoscenza. Di lui su questa terra rimane davvero ciò che desiderava e sperava: un suono. Che continua ad agire. Quello che Franco ha poi trasmesso nell’ultima parte della sua vita, con il progressivo peggioramento delle condizioni di salute, è stato qualcosa di straordinario. Ormai lui parlava pochissimo, ma il suo sguardo era intensissimo. Quando andavo a trovarlo tornavo sempre più arricchita. Aveva una piena e totale serenità».
Da anni lo sta celebrando nei concerti e con l’ultimo disco, due anni fa.
«Lo canterò anche nel mio nuovo progetto, un tour teatrale che comincerà a metà novembre, si chiama Master Songs. Un programma in cui ho condensato le canzoni che io ritengo più significative in questo momento storico e della mia vita, ma anche brani di altri cantautori, da De André a Fossati da De Gregori con Atlantide a Guccini con Auschwitz. Sarò accompagnata da Carlo Guaitoli al pianoforte, Antonello D’Urso alle chitarre e da Chiara Trentin al violoncello. E io suonerò qua e là qualche cosa alle tastiere. Un percorso musicale che prende molti momenti della mia vita artistica con tematiche che mi stanno particolarmente a cuore oggi più che mai. Canterò così, per esempio, Viali di solitudine, Gli ultimi fuochi e Dammi la mano amore, un testo che ho scritto in un momento molto particolare».
Cos’era successo?
«Ero appena stata con un gruppo di amici medici, di cui faceva parte anche un monaco cappuccino, a portare aiuti sanitari e medicinali nella Bosnia Erzegovina, dove sono stata anche a Medjugorie assistendo a un’apparizione. Il verso dice: “Ed anche ciò che appare più terribile acquista la sua dimensione naturale”. Io in 70 anni di vita non ho mai visto tante atrocità come adesso all’ordine del giorno e con una naturalezza, diciamo così, che è sconvolgente. Provo una profonda compassione non solo per chi è vittima ma anche per chi commette tutto questo male. In fondo, non sanno quello che fanno. Ci sono forze avverse che operano nel mondo, ma non voglio definirle. Se ci sono vuol dire che fanno parte della vita e come tali si affrontano».
Il sole nella pioggia, come cantava...
«Sì, c’è uno e c’è l’altro. È il mistero dell’uomo e della vita. Se non si ha la possibilità di essere stimolati in un certo modo oppure di nascere già con delle predisposizioni verso la bellezza e verso il bene, le persone più fragili vengono portate via, trascinate nel vuoto. E risalire è difficile. Limitandoci alla musica, è come un sistema che promuove solo un certo tipo di sonorità e di cultura. Certo, ci sono responsabilità importanti in chi propone e divulga. Abbiamo mezzi di comunicazione straordinari oggi, ma è soprattutto come li si usa a contare. Il più grande e importante di tutti non a caso si chiama Rete»