«Con il consenso informato dei genitori». Una piccola frase che, se inserita nel comma 16 del maxiemendamento della riforma della scuola, avrebbe non solo fatto chiarezza subito, ma anche evitato preoccupazioni che stanno viaggiando sui social. È il riferimento al comma in cui si parla del piano triennale di «prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni » attraverso iniziative destinate a «informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche» in questione, ricordando anche il decreto legge 93/2013 in cui all’articolo 5 si parla ancora di prevenzione per «sensibilizzare, informare, formare gli studenti e prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere». Dunque sensibilizzare contro la violenza e non un’educazione alla teoria del genere. Il testo parla chiaro, ma a volte il legislatore lascia margini che per qualcuno sono opinabili. Lo si è visto in diverse occasioni, in cui la «sensibilizzazione contro la violenza» si è trasformata «un’educazione al gender» non solo non prevista, ma anche improponibile senza il consenso informato dei genitori stessi. Già perché ogni iniziativa che la scuola intende proporre ai propri studenti deve essere posta al vaglio degli organi collegiali. Impensabile un corso o una iniziativa pro-gender senza che se ne sia discusso in questi organismi e ci si sia confrontati con le famiglie. È quella democrazia che nel 1974 si è cercato di portare nella scuola italiana con i decreti delegati. Ma la democrazia, in ogni sua espressione, necessita della partecipazione dei protagonisti. E qui a volte i genitori hanno ceduto alla logica della delega alla scuola. Episodi come questi, invece, dovrebbero spingere a una presenza reale dentro gli istituti, consapevoli di essere i primi responsabili dell’educazione dei figli. Essere presenti per far sentire la propria voce, soprattutto sui temi più sensibili. La vera sfida passa anche da qui.