sabato 12 aprile 2025
La decisione dell’Istat di rivedere gli elenchi che definiscono le attività inserendo anche i servizi sessuali scuote il mondo delle associazioni: «Si cancellano sfruttamento e vittime»
Un centro massaggi in una delle grandi capitali europee

Un centro massaggi in una delle grandi capitali europee - Alamy

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Partire dai conti, che significa quantificare. Denaro, affari, attività economiche. È difficile accettare la prospettiva “commerciale” per chi la prostituzione la conosce di persona, la combatte come la forma di violenza e sopruso più vecchia del mondo, per chi ne tocca con mano l’insita disumanità, la disparità del rapporto uomo-donna e l’esercizio iniquo del potere tra i sessi. Ed è il motivo per cui l’aggiornamento dei codici Ateco introdotto dall’Istat, che da una parte riconosce la prostituzione come lavoro a tutti gli effetti e dall’altra inserisce nelle classificazioni commerciali anche attività illegali come l’«organizzazione di eventi di prostituzione o gestione di locali di prostituzione», sta innescando una cascata inarrestabile di polemiche.

Mero sistema di classificazione, si dirà, ci sono forma (il codice appunto) e sostanza (il fenomeno in tutte le sue forme legali e illegali, su cui l’Istat non a caso è tornata subito a fare una precisa distinzione), ma la forma molto spesso è anche sostanza o finisce per esserlo: che cosa significa dunque codificare l’attività imprenditoriale di una prostituta in un Paese dove il sex work non esiste e dove la prostituzione non è reato, ma tutto ciò che la induce, la favorisce o la sfrutta invece sì? Dove si vuole o si finisce per arrivare? E perché? Sono le domande poste da tutte le associazioni impegnate da sempre a fianco di chi la prostituzione non la sceglie liberamente come un lavoro molto remunerativo e molto divertente (un’idea fuorviante veicolata all’opinione pubblica dalla celebre piattaforma OnlyFans), ma che la subisce e ne finisce stritolato. Soprattutto donne, vulnerabili, giovanissime, sempre più spesso ormai – un’altra delle eredità del Covid – lontano dalla strada, in appartamenti di lusso e b&b appositamente attrezzati. Dove il confine tra legale e illegale è impossibile da stabilire. «La sensazione è che le vittime, perché di vittime stiamo parlando, all’improvviso scompaiano o debbano scomparire – spiega disarmata Stefania Lupo della Comunità Papa Giovanni XXIII –. Di fatto si sta riaprendo un dibattito sulla prostituzione nel nostro Paese a partire dai codici Ateco, cioè da quanto questo “giro di affari” possa rendere al fisco. Con l’obiettivo, temiamo, di arrivare a fare i conti tra un anno e decidere di inquadrare anche giuridicamente in modo diverso il fenomeno». Ciò di cui il nostro Paese non avrebbe affatto bisogno, vista l’attualità dirompente di una legge (quella voluta 67 anni fa da Lina Merlin) che resiste alle discutibili derive prese dal resto d’Europa, dove legalizzazioni e addirittura contrattualizzazioni della prostituzione hanno portato a risultati fallimentari in termini di tutela della dignità delle persone coinvolte e di rispetto dei loro diritti. «La verità è che la decisione di introdurre un codice Ateco per la prostituzione rischia di fornire un’ulteriore opportunità alla criminalità attraverso la creazione di zone grigie in cui possono proliferare forme di sfruttamento “codificate”, proprio come è successo dove è stata legalizzata» rimarca Matteo Fadda, che della Papa Giovanni è presidente. Ricordando che in Senato è in corso da mesi una nuova indagine sul fenomeno, «ed è lì che vorremmo portare la voce delle sopravvissute che assistiamo, la loro fatica di ricostruirsi una vita e una indipendenza economica dopo anni di manipolazione, abuso fisico e psicologico, minacce e ricatti».

Di rischio di legittimare una realtà che spesso si nutre di sfruttamento, violenza e mancanza di possibilità di scelta parla anche l’arcivescovo di Siena, il cardinale Augusto Paolo Lojudice, alle spalle anni di strada a Roma accanto alle prostitute insieme ai volontari della sua parrocchia: «La vendita del proprio corpo non può essere considerata un’attività economica. Dietro le storie di tante donne che si ritrovano schiacciate dal mondo della prostituzione c’è sofferenza, solitudine e violenza. Basta chiedere a chiunque abbia avvicinato, ovviamente non come “cliente”, queste ragazze per avere conferma di ciò. Dare un codice Ateco a questo è come accettare tutto ciò che c’è dietro: sfruttamento, ricatti, droga. È come dare ufficialità al mondo fuori legge che si regge su questo. C’è bisogno di rimettere al centro di ogni azione i diritti basilari di ogni essere umano soprattutto se fragile. Non possiamo permettere che la donna ancora una volta debba subire questo oltraggio, questa mercificazione “autorizzata”». Sulla stessa linea d’onda Barbara Funari, assessora ai Servizi sociali e alla Sanità di Roma Capitale, tra le pochissime amministratrici ad aver fatto sentire la propria voce. Sociologa, coordinatrice romana di Demos – Democrazia solidale, volontaria della Comunità di Sant’Egidio sia in Italia sia in Africa – Funari pensa che la maggior parte delle donne, se non quasi tutte, non è davvero libera quando si prostituisce: «Come assessorato ai Servizi sociali abbiamo attivato una serie di progetti per offrire alternative e reinserimento. Quando i nostri operatori incontrano le prostitute, nessuna dichiara di essere felice. Hanno storie di coercizione e di relazioni tossiche, di mariti e compagni che le costringono o le inducono a vendere il proprio corpo. Queste donne potranno anche avere un codice Ateco, ma è una finzione. La prostituzione non è un lavoro come un altro». Il perché è presto detto: «Il corpo non è una merce. Dirò di più: difendere la mercificazione del corpo è l’anticamera della violenza sulle donne». Insistere sulla “libera scelta” di escort e prostitute d’altronde, che è ciò a cui hanno subito strizzato l’occhio alcuni esponenti politici (a partire da quelli della Lega), è ingiusto e irrealistico: «Serve un impegno concreto per offrire alternative reali, per contrastare le reti criminali che gestiscono il mercato del sesso e per sostenere chi vuole uscirne, non certo incoraggiarlo per via fiscale o amministrativa» continua Funari.

Non sono solo teorie, e lo sa bene chi lavora per offrire un futuro diverso alle donne come l’avvocata nigeriana Esohe Agathise, esperta dell’Onu e fondatrice dell’associazione Iroko, con base in Piemonte: «Le poche donne che effettivamente scelgono questa attività non diventino un paravento per la stragrande maggioranza che invece la subiscono perché non hanno altri mezzi per la sopravvivenza». La prostituzione, insomma, per Agathise è «l’unica attività che si vuole chiamare lavoro e che danneggia invece profondamente la persona dal punto di vista fisico, psicologico ed emotivo, oltre a ledere l’umanità e la dignità. Lo ha stabilito la recente indagine conoscitiva sulla prostituzione coordinata dalla senatrice Alessandra Maiorino, ma lo ha detto anche la Corte Costituzionale: la prostituzione non può essere considerata un’attività economica perché è al di sotto della dignità umana».

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