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La Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede Dignitas infinita recentemente pubblicata prende in esame il caso della maternità surrogata all’interno di un orizzonte teorico volto a cogliere tutti gli ambiti in cui la dignità umana si trova a essere tragicamente ferita, quando non viene rispettato il suo fondamentale significato ontologico. L’elenco è ampio, ma il caso della surrogacy appare in effetti emblematico, e la presa di posizione del Magistero si pone di fatto in continuità con almeno due importanti documenti che sono apparsi negli ultimi anni.
Il primo riferimento da ricordare è sicuramente, in questo senso, la Carta per l’Abolizione universale della maternità surrogata, promossa dalla sinistra femminista francese nel 2016. Già in quel documento la maternità surrogata veniva definita come una «pratica sociale che cancella il valore intrinseco e la dignità degli esseri umani». Contrariamente a molte rappresentazioni, infatti, in gioco nella surrogacy non ci sono solo una donna e dei committenti. Nella sua dimensione commerciale essa è semmai un fenomeno che coinvolge attori differenti e spesso dislocati in Paesi diversi, in cui un ruolo decisivo lo hanno le company che sovraintendono al processo dell’outsourcing riproduttivo, con tutto il loro coté di medici, avvocati e così via.
Il secondo riferimento è la Dichiarazione di Casablanca del 2023, che mostra in modo interessante come si sia ormai affermato a livello globale nelle nostre società un consenso nel giudizio critico sulla maternità surrogata anche a fronte di posizioni politiche, etiche e religiose diverse. A essere significativo in questo documento è come esso segnali già nella premessa sia la consapevolezza della sofferenza delle coppie che non riescono a generare sia il carattere attrattivo a livello dell’immaginario pubblico delle tecnologie riproduttive. Si tratta di un punto importante perché questa attrattività meriterebbe invece di essere demitizzata: la realtà del processo tecnologico sotteso alla maternità surrogata è infatti tutt’altro che semplice. Il processo è, anzi, lungo e tortuoso, non privo di rischi, tanto che sia le stimolazioni ormonali estremamente invasive e rischiose che si fanno sul corpo della donna che mette a disposizione gli ovociti, sia i trattamenti che servono per permettere l’impianto degli embrioni nell’utero della donna che fa la madre surrogata appaiono come interventi non giustificati dal punto di vista medico: un consumo di medicina che non ha nulla a che vedere con la categoria costituzionale del diritto alla salute.
Il documento del Dicastero si pone dunque in continuità con questi riferimenti caratterizzati in modo significativo dalla richiesta di abolire anziché proibire la maternità surrogata, in modo che nessuno possa rivendicarla come un diritto. Il problema della maternità surrogata non è, infatti, soltanto il nascere per contratto ma la scomposizione del materno resa possibile dalla tecnica della Fivet (Fecondazione in vitro-Embryo transfer) che divide in tre figure femminili ciò che per secoli è avvenuto nel corpo di un’unica madre: la madre genetica (chi dona o vende l’ovocita), la madre che fa la gestazione e il parto, e la madre sociale che si prenderà cura del bambino dopo il parto. La domanda che così si pone è chi sia in questo tracciato tecnologico di scomposizione la vera madre. Una domanda difficile per lo studioso ma che diventa ancora più complessa, personale e drammatica per il figlio: “chi è mia madre?”. E dunque: “chi sono io?”.
A motivare la richiesta di abolizione universale della maternità surrogata è poi, a ben vedere, l’impossibilità di distinguere nettamente sul piano valutativo tra surrogacy commerciale e altruistica. Certo, si può sempre distinguere tra mercato e dono, ma questa distinzione perde la sua importanza non appena ci si rende conto del fatto che in ogni “maternità per conto terzi” a essere venduto o donato non è mai davvero solo il servizio gestazionale. Infatti non esiste nessun servizio gestazionale senza la presenza effettiva di un bambino, ed è questo il motivo per cui a essere venduto o donato è sempre un figlio, mettendo così in crisi in modo radicale la distinzione tra persone e cose.
Ciò che la pubblicazione dei documenti citati ricorda è dunque come non tutti i modi di generare siano equivalenti, e in effetti occorre dire con semplicità, ma anche con forza, che ci sono forme generative che non sono all’altezza della dignità umana. Sempre che si voglia che la parola “generazione” possa ancora conservare il suo significato e per questo anche il suo nome.
* Professore ordinario di Filosofia Morale e docente di Bioetica
Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Milano
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