lunedì 17 febbraio 2025
L’intervento nella Giornata diocesana del Malato, dopo la legge toscana sul suicidio assistito: «amore e attenzione» risposte a un mondo che «considera inutile e senza senso» la vita fragile
Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana

Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana - Matteo Nardone / ipa-agency.net

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«Un mondo come il nostro che esalta la vita e poi la considera inutile e senza senso perché fragile, richiede amore, attenzione, risorse per curarla e difenderla sempre». Nei giorni in cui l’opinione pubblica si interroga sulle possibili regole da porre attorno alle scelte di fine vita, dopo la controversa legge della Regione Toscana sul suicidio assistito, è questa la priorità indicata dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, nella Giornata del Malato celebrata nella sua diocesi. Nell’omelia della Messa celebrata nella Cappella San Francesco del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, Zuppi si è lungamente soffermato sulla necessità di prendersi cura di chi vive la malattia e la sofferenza: «Quanto è importante – ha detto il presidente dei vescovi italiani – curare tutta la persona, e tutte le persone, nell’unica fragilità che è insieme dell’anima, del corpo e della mente, perché è una sola e la persona è sempre intera».

Rivolgendosi a medici, infermieri e operatori della salute, Zuppi li ha ringraziati «di cuore» per «quello che fate, che significa anche ricerca, sistema, capacità di lavorare insieme, di cercare l’eccellenza. So quanto voi stessi trovate gioia vera nella cura, non solo nella guarigione», definendoli «“angeli” di speranza, che la danno e la ricevono» ma ricordando anche che «tutti lo siamo. L’amore non abbandona, ed è la vera cura che rende preziosa la vita». Una considerazione particolarmente vera in «questo Giubileo della Speranza» che «ci ricorda che siamo pellegrini alla ricerca di futuro, di vita, di luce».

È in particolare nell’ospedale come «luogo di condivisione vera» che «ci si rende conto che siamo “angeli” di speranza. Vorrei – ha aggiunto il cardinale Zuppi – che la Chiesa fosse proprio questa madre che non lascia mai soli, che non abbandona, segno di speranza concreta. Le sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che visitano e nell’affetto ricevuto. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine».

Attorno alla malattia e al dolore oggi prevalgono però soluzioni pragmatiche, individualiste, sbrigative: «Il mondo – ha osservato l’arcivescovo di Bologna – non sa consolare perché scappa dalla fragilità, si accontenta di parole perché crede che la risposta sia capire o trovare una spiegazione a tutto, quando invece abbiamo bisogno di consolazione vera, che vuol dire protezione, sicurezza, senso, speranza. Chi è malato ha bisogno di luce nel buio, e di vicinanza in quel mistero che dà la vertigine così impenetrabile della vita». Vicinanza – parola chiave dell’omelia – significa non lasciar solo nessuno nella sua prova, mai: «La malattia porta con sé la solitudine e la rivela. Dio non ci lascia soli, e ci ama perché non ci sentiamo soli e non lasciamo soli. Le sofferenze degli ammalati possono trovare sollievo “nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono”», citazione di papa Francesco dalla bolla di indizione del Giubileo.

Piena di significato è, in questa chiave, la scelta di Zuppi di suggellare l’omelia con una intensa citazione di padre David Maria Turoldo: «Voi che credete, voi che sperate correte su tutte le strade, le piazze a svelare il grande segreto... Andate a dire ai quattro venti che la notte passa, che tutto ha un senso, che le guerre finiscono, che la storia ha uno sbocco, che l’amore alla fine vincerà l’oblio e la vita sconfiggerà la morte. Voi che l’avete intuito per grazia continuate il cammino, spargete la vostra gioia, continuate a dire che la speranza non ha confini». Il grande “segreto” mentre tutto attorno dice di “lasciar andare” è la gioia della cura. Ed è tutta un’altra logica.

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