lunedì 31 marzo 2025
I trent’anni dell’enciclica di san Giovanni Paolo II che porta impresso il dovere della Chiesa di non tacere davanti alla “cultura di morte” del nostro tempo, con coraggio ma anche con gioia
Evangelium vitae, come si dice oggi “non uccidere”
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Il 25 marzo 1995 veniva pubblicata l’enciclica Evangelium vitae. Dopo 30 anni, quelle parole ancora accendono il cuore, ridicono il Vangelo della Vita, cioè la gioia di un annuncio di Bene. Proprio oggi che la vita di moltitudini è straziata da guerre e stragi e crudeltà senza nome, e ad aver pace si comprano armi e ordigni di morte. Sì, c’erano anche allora parole che nascevano da un pianto in gola, sussurrato all’inizio e ripreso nella preghiera finale, a invocare sguardo su una litania dolente «di bimbi cui viene impedito di nascere, di poveri cui è reso difficile vivere, di uomini e donne vittime di disumana violenza, di anziani e malati uccisi dall’indifferenza o da una presunta pietà». Proprio oggi, che al vangelo della fraternità universale si va proclamando nel mondo un ordo amoris che adora l’egoismo del “prima noi, e poi gli scarti”.

L’enciclica è voce di una Chiesa che non può tacere; è parola di fede che risponde alla sfida d’una cultura della morte. Nel solco d’una dottrina che richiama la visione profetica della Rerum novarum, essa proclama l’inviolabile dignità degli esseri umani oppressi nel loro diritto alla vita, rinnovando il grido evangelico in difesa dei deboli. C’è nel primo capitolo una frase cruciale sulle minacce ai diritti umani, se la «società dei conviventi» si trasforma in una «società di esclusi, di emarginati e di rimossi». Il secondo capitolo è una meditazione che percorre le Scritture e vi rintraccia le ragioni di una fede nella vita come bene, come dono e destino infinito, poiché l’uomo è immagine di Dio e il Figlio di Dio ha donato all’uomo la vita eterna. Una rivelazione che affida e chiede responsabilità verso ogni vivente. Il terzo capitolo è solenne e grave: cerca il significato profondo del Non uccidere. Un punto dove è massima la vocazione sociale degli individui e del mondo: la legge e il costume. Non può essere che l’ordinamento giuridico di fronte a convinzioni che offendono la vita si limiti a recepirle se una maggioranza le sostiene. Il rispetto della vita è valore assoluto, non può soggiacere al relativismo etico. Resta inviolabile, presidiato com’è dalla legge morale, ed è insieme fondamento primo della legge civile. La democrazia è criterio che non può farsi arbitrio ma custode della giustizia sociale.

L’ultimo capitolo parla della vita sotto il profilo di un compito da promuovere nella speranza. Percorre le forme moderne di impegno attivo e di servizio alla vita. Chiede per prima cosa la mobilitazione delle coscienze. Un invito proprio oggi attualissimo, dopo 30 anni in cui s’è registrato un «pendio scivoloso», col riaffaccio dei trionfi della morte, guerre, stragi, terrorismo, deportazioni, violenze contro stranieri, donne e minori, e la perdurante ecatombe di vite uccise prima di nascere, per preteso diritto d’aborto.
Come sarà dunque il futuro? L’enciclica parla di una «civiltà dell’amore», e vi slancia una speranza operosa, e ne traccia il cammino. E qualche luce già brilla, nel vissuto di un impegno di fede, nella storia concreta di azioni di solidarietà sociale, nel volontariato per la vita. L’enciclica già allora menzionava i Centri di Aiuto alla Vita che «con ammirevole dedizione e sacrificio offrono un sostegno morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere all’aborto». Azione di carità e cultura di verità, questo lo stile. Così l’insegnamento ancora risuona con l’identica forza, invita a testimoniare con coraggio il valore sacro di ogni esistenza, a farsi «segni anticipatori» – così l’enciclica – della «vittoria sulla morte».

Nella brevità d’una sintesi (che è invito a integrale rilettura), l’Evangelium vitae lascia in cuore una trepida gioia. Una gioia, sì, perché Vangelo vuol dire Buona Notizia, e la buona notizia è che ogni essere umano vivente è dono di Dio, amato da Dio, è sua gloria. Una fede che è ragione di quella fraternità che è anche il sogno umano dì ogni laico desiderio di solidarietà sociale. Una parola che rincuora, che salva. Ci pare a volte di averla smarrita, quella gioia, oggi che quasi abbiamo paura della vita, del futuro, dei figli che stentiamo a generare. Forse è tempo di tornare a respirare la gioia di trasmettere in dono ciò che in dono abbiamo ricevuto, in un flusso d’amore che rinnova, che fa giovane il mondo. Di intendere che la vita, tua mia nostra, è un intreccio chiamato a unico destino già qui, dove non ha senso proclamare diritti per tutti se la felicità dell’uno non confida nella sollecitudine dell’altro, in reciproca fiducia operosa, secondo l’unica legge, fatta di un solo articolo, fatto di una sola parola, che è quella del “comandamento nuovo”.

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