lunedì 7 aprile 2025
Il primo diritto nella malattia inguaribile? La dignità della vita fino all’ultimo. E la cura contro il suicidio assistito. Nel forum di intellettuali cattolici a Roma messaggio del presidente Cei
Zuppi: la speranza, terapia umana integrale per fermare l’eutanasia

Foto Lev Dolgachov/Icp

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Quando la diagnosi di una malattia grave non lascia scampo, si può e si deve parlare di speranza. Anche se, come ha ricordato il cardinale Matteo Zuppi, «in questi tempi di cambiamenti d’epoca e di guerre palesi e latenti» dobbiamo riflettere se ci sia davvero un diritto alla speranza». Che nasce prima di tutto «dalle relazioni umane, dalla vicinanza, dalla solidarietà, quella per cui nessuno deve mai essere lasciato da solo».

Nel suo messaggio alla platea che venerdì 4 aprile ha partecipato a Roma al convegno “La speranza cura. Quale diritto nella malattia inguaribile?”, organizzato dall’Università Europea di Roma (Uer) nel Complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia alla vigilia del Giubileo degli Ammalati e del Mondo sanitario, il presidente della Cei ha voluto ricordare le parole di papa Francesco: «“Stiamo vivendo quasi a livello mondiale una forte tendenza alla legalizzazione dell’eutanasia. Sappiamo che, quando si dà un accompagnamento umano, sereno e partecipativo, il paziente cronico grave o il malato in fase terminale percepisce questa sollecitudine. Persino in quelle dure circostanze se la persona si sente amata, rispettata, accettata, l’ombra negativa dell’eutanasia scompare o diviene quasi inesistente, poiché il valore del suo essere si misura in base alla sua capacità di dare, di ricevere amore, e non in base alla sua produttività”». «Ecco, questa è vera speranza e a questa tutti hanno diritto – ha detto il cardinale Zuppi –. È una terapia umana integrale. Si nutre di relazione e di cura. È lo sguardo della persona malata sulla propria malattia, cui si unisce la prospettiva sia del curante sia della comunità tutta».

Quindici anni dopo la promulgazione della legge 38 sul diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, di speranza molti malati hanno ancora bisogno. «Quella legge è nata dopo la vicenda di Eluana Englaro – ha ricordato la promotrice Paola Binetti, ordinario di Storia della medicina e Scienze umane dell’Università Campus Bio-Medico di Roma –. L’abbiamo voluta perché mai più nessun paziente possa sentirsi solo o abbandonato, né possa rappresentare per la famiglia un carico così pesante da creare sensi di colpa, tanto da portare a desiderare la morte per non gravare sulla famiglia. Non a caso è stata votata all’unanimità dall’intero Parlamento».

Da allora, di passi ne sono stati fatti, alcune Regioni – come il Lazio – si sono attrezzate, tante altre invece latitano. Eppure la priorità per molti sembra ormai una legge per il fine vita. «Credo che potremo fare una legge che chiarirà sicuramente alcuni punti, alcune delle condizioni di presa in carico di queste persone, ma sono preoccupata – afferma Binetti – perché nella richiesta esplicita di chi vuole questa norma c’è il bisogno di definire una eutanasia vera e propria, e non si considereranno soddisfatti fino a che non la otterranno».

«Le norme non si fanno per i casi singoli», ha detto Alberto Gambino, prorettore della Uer, presidente del Centro studi Scienza & Vita e ordinario di Diritto privato. La legge 38 era legata a un sistema, a una rete: «Ovunque si dovrebbe avere la possibilità di lenire il dolore, anche se non si è nel fine vita». Inutile dire che curare i malati inguaribili, gli anziani cronici, i più fragili, insomma, per le aziende sanitarie è un peso economico non indifferente. Se prevale «una spinta sociale nel ritenere alcune vite meno degne di essere vissute», ha ribadito Gambino, vorrà dire che alla fine ci potremo trovare davanti a un bivio: «Affrontare un momento di sofferenza con un grande investimento nella cura del dolore, oppure uno minore nell’interruzione della vita».

Del resto, come ha spiegato Emanuele Bilotti, ordinario di Diritto privato all’Uer, «non esiste un diritto all’aiuto al suicidio». La Corte costituzionale riconosce, infatti, «la primazia del diritto alla vita»». Ne consegue dunque che «la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente». Al contrario, è «sempre necessario un bilanciamento che assicuri una tutela minima della vita umana». Ecco dunque perché «le cure palliative – come ha ricordato Filippo Vari, ordinario di Diritto costituzionale all’Uer e vicepresidente del Centro Studi Livatino – costituiscono uno strumento fondamentale per garantire il diritto alla salute. È necessario un impegno dei poteri pubblici per garantire a tutti la possibilità di accedervi in ogni area del territorio nazionale. In questa prospettiva le cure palliative rappresentano non solo una priorità per le politiche sanitarie, come afferma anche la Corte costituzionale, ma una strada ineludibile per restituire speranza a tutta la società».

Dunque, garantire la dignità della vita della persona fino alla fine è assolutamente prioritario rispetto a qualunque altra considerazione. E per riuscirci, come ha ribadito Stefano Ojetti, presidente dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci), bisogna «guarire, curare e consolare, come insegna Ippocrate. E in più è necessario ascoltare e dare speranza». Che in concreto significa anche «assicurare la soppressione del dolore, garantire una adeguata ventilazione oltre che l’idratazione. Senza mai dimenticare l’igiene della persona: il malato si deve sentire sempre a proprio agio con sé stesso».

La speranza, come ha ricordato Claudia Navarini, ordinario di Filosofia morale all’Uer, «è uno dei tratti di cui i malati sentono maggiormente il bisogno, per l’essere protesi verso la ricerca di un senso in una vita che è intrecciata con la sofferenza. Non è tanto la malattia a togliere interesse per la vita ma la mancanza di speranza, che si correla infatti con la tendenza suicidaria». Le norme per tutelare il malato esistono, ma è necessario metterle in pratica. «Dall’attuazione della legge 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore – ha ribadito Francesca Piergentili, docente di Diritto costituzionale all’Uer – dipende l’effettiva garanzia del diritto fondamentale alla cura globale nell’inguaribilità, considerata un imperativo morale per tutti i sistemi sanitari anche dall’Oms».

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