martedì 17 settembre 2024
Rifugiati siriani e afghani che lavorano, studenti africani che si laureano, minori perduti che ritrovano i genitori. Le storie tragiche e ricche di umanità che nessuno racconta
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Non solo legalità, i corridoi umanitari e l’accoglienza sono cuore e anima di una comunità. In un decennio si sono consolidate sui territori relazioni e storie - che quasi nessuno racconta - ricche di umanità. Basta pensare al ricongiungimento di famiglie separate dalle tragedie delle rotte migratorie, alla cura di malattie, a chi raggiunge l’autonomia lasciandosi alle spalle persecuzioni, campi profughi e viaggi della speranza. E il valore aggiunto per la comunità è la riscoperta del senso dell’accoglienza.
A Manfredonia, diocesi pugliese, nella Casa della carità ci sono 20 afghani arrivati tramite corridoi umanitari da Pakistan e Turchia.
«Abbiamo inziato nel 2017 - spiega Angela Cosenza, responsabile dell’Ufficio progettazione e coordinamento della Caritas diocesana di Manfredonia, Vieste, San Giovanni Rotondo - con 40 siriani provenienti dalla Giordania. Le sei famiglie avevano un malato venuto a curarsi all’ospedale Casa sollievo della Sofferenza dell’Opera padre Pio a San Giovanni Rotondo». Casi gravi, dalle malattie oncologiche alla sclerosi multipla.
«Quattro famiglie arrivate con quel corridoio vivono ancora in Italia - prosegue Angela Cosenza - e sono perfettamente integrate, la Caritas rimane un riferimento per sempre».
Come si costruisce l’autonomia dei rifugiati?
«Con i corsi di italiano e con volontari e operatori che si occupano di iscrivere i bambini a scuola, delle pratiche burocratiche e delle cure sanitarie. E poi con i tirocini nelle aziende. Il progetto viene gestito in collaborazione con parrocchie e famiglie che li coinvolgono nella quotidianità».
Altri siriani sono arrivati dal campo profughi giordano di Zaatari e poi gli afghani nel febbraio 2023 dai corridoi aperti dal Pakistan e dalla Turchia nell’aprile 2024. Il bilancio è 100 persone accolte. L’università di Foggia ha coinvolto i rifugiati in un innovativo progetto con i Beni Culturali per portarli negli scavi archeologici di Siponto.
In Calabria, nella diocesi di Oppido Palmi, i corridoi sono iniziati nel maggio 2023.
«Volevamo opporci ai trafficanti di esseri umani che buttano in mare la gente a morire - afferma il direttore, il diacono Michele Vomera- e abbiamo accolto quattro famiglie afghane. Due accoglienze sono terminate con successo. I beneficiari hanno imparato l’italiano e sono stati assistiti nella preparazione dei documenti. Un ragazzo cieco è stato aiutato a preparare la pratica per l’invalidità. Un’altra famiglia è cresciuta - la mamma si è scoperta incinta - e il padre ora lavora. La bellezza sono i bambini che parlano italiano». E, in un paese di tremila abitanti, gli alunni in più alla scuola dell’obbligo sono importanti per formare le classi. Ad inizio estate è stata accolta una famiglia afghana con due genitori anziani e due figlie. Una sfida per ribaltare una situazione paradossale.
«La maggiore, 49 anni, era ginecologa e ha lavorato diversi anni in ospedale in Afghanistan come ecografa, ma con l’arrivo dei talebani è fuggita».
Ma neppure in una regione che ha dovuto importare i medici da Cuba per le carenze di personale può esercitare la professione medica perché in Italia il suo titolo non è riconosciuto. «I genitori hanno fatto sacrifici per farla studiare medicina, nel suo paese le era vietato lavorare in quanto donna e ora che è libera è la burocrazia a bloccarla. Il riconoscimento titoli è infatti chiuso per alcuni paesi».
Almeno ad agosto da Londra è arrivato in visita a sorpresa un fratello fuggito 11 anni fa in Gran Bretagna con il figlio, visto solo una volta dai nonni, una gioia condivisa dalla comunità.
«Questa esperienza- conclude Vomera - in un territorio con la tendopoli di San Ferdinando a Rosarno manda un messaggio chiaro, nel 2024 i ghetti vanno chiusi e i corridoi incentivati».
A Pordenone, la diocesi è impegnata dal 2000 nell’accoglienza istituzionale di profughi e richiedenti asilo.
«Abbiamo dato vita a un ente gestore e, quando nelle varie emergenze nel 2014 e 2015 le presenze sono fortemente aumentate - spiega il direttore Caritas Andrea Barachino - abbiamo creato con le altre realtà territoriali una Ats offrendo 1.000 posti. Ci sono poi attività di supporto a chi esce dai percorsi di accoglienza e un impegno diretto per i flussi ingenti non in rete».
A partire dai progetti di accoglienza diffusa la diocesi è approdata ai corridoi umanitari. Grazie a questi una famiglia di sette persone fuggita dall’Afghanistan è riuscita a ricongiungersi con un figlio 11enne ospite di una comunità in regione dopo aver attraversato la rotta balcanica con uno zio ed essersi perso. La madre e i fratelli sono arrivati a dicembre nella città friulana e il padre a gennaio, ospiti di una parrocchia. Il ragazzo ha 11 anni e frequenta la prima media, parla l’italiano ed è il tramite con la comunità. Il padre ha fretta di lavorare per pagare i debiti di viaggio, ma senza conoscere l’italiano rischia di finire sfruttato. Ma la mamma analfabeta si è iscritta al corso di lingua.
Anche Caritas Roma è presente su vari fronti. Dalla bassa soglia dell’ostello di via Marsala all’accoglienza istituzionale diffusa in cui sono coinvolte 15 tra parrocchie e istituti religiosi come Centri di accoglienza straordinaria con la prefettura e due accoglienze Sai con il comune per uomini soli e mamme con bambini.
«Da tempo - spiega il responsabile dell’Area immigrati e rifugiati Lorenzo Chialastri - abbiamo anche tre centri di semi autonomia per accompagnare donne e uomini soli in uscita dai servizi istituzionali. Mentre siamo impegnati per gli studenti rifugiati sia con i corridoi universitari sia con chi stava in Italia e faticava a concludere gli studi. Frequentano farmacia, ingegneria, infermieristica, vengono da Africa e Medio Oriente per restare. Dopo la pandemia, l’accoglienza non istituzionale nelle parrocchie ha aiutato famiglie e persone in difficoltà sul piano sociale e lavorativo. Infine abbiamo quattro comunità per minori non accompagnati».
Interessante la risposta delle parrocchie. «Hanno creato spazi nuovi - conclude Chialastri - e rapporti forti. Alcune comunità accolgono i migranti ormai dal 2016».
E non intendono fermarsi.

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