L'Iran di Newsha Tavakolian, "And They Laughed At Me" al Mudec di Milano: la ragazza che annusa una rosa - © Newsha Tavakolian
L’ultimo petalo di una rosa che appassisce è Samira Sabzian. È stata uccisa all'alba. Le guardie l’hanno prelevata dalla cella del carcere di Qeezel Hesar di Karaj e l'hanno impiccata per avere assassinato, otto anni fa, il marito violento, l'uomo che era stata obbligata a sposare a 15 anni e che da allora l'aveva picchiata, umiliata e seviziata. La violazione dei diritti e l’oppressione politica, in Iran. L’uccisione di Samira, come la morte di Mahsa Amini (la 22enne picchiata dagli agenti della “polizia morale” che l'avevano arrestata perché non indossava correttamente il velo, lo scorso anno scatenando la nuova protesta delle donne) o la sedia vuota lasciata a Oslo dall’attivista Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace, in carcere, in condizioni di salute sempre più precarie. Una realtà sulla quale punta l’obiettivo, nel tempo, a partire dalla rivolta delle donne in Iran, la fotografa di Teheran, Newsha Tavakolian, classe 1981, membro di Magnum Photos. Donna e iraniana. Che ha lavorato per strada come fotografa in momenti di apertura del suo paese, ma nei periodi di grande censura ha trovato e sperimentato modi alternativi per contribuire con il suo linguaggio artistico a documentare quei cambiamenti e quegli eventi che continuano a plasmarci oggi. A partire da una foto-simbolo di speranza e cambiamento: una ragazza che annusa una rosa, scattata nel 1998 «durante un incontro tra il presidente riformista Khatami e i giovani. Una ragazza e la rosa della speranza». Poi annientata.
È l’immagine che accoglierà il visitatore fino al 28 gennaio, al Mudec di Milano, nella mostra And They Laughed at Me (e loro ridevano di me), curata da Denis Curti e promossa da Fondazione Deloitte e Deloitte Italia in collaborazione con 24 Ore Cultura: oltre 70 opere tra immagini d’archivio, scatti inediti e fotogrammi per testimoniare visivamente e raccontare al visitatore il volto drammatico dell’oppressione in Iran, dal 1996 a oggi. L’obiettivo della macchina fotografica di Newsha Tavakolian si “sostituisce agli occhi seviziati” dei suoi connazionali. Le sue immagini, pregnanti di carica umana, riescono ad amplificare la voce, a lungo soffocata, di tutti coloro che hanno subito questa repressione e violenza. È il progetto che ha vinto la prima edizione del Photo Grant di Deloitte e Fondazione Deloitte (sul tema delle “Connessioni”, fra 700 proposte), accreditandosi subito fra i più importanti premi di fotografia a livello internazionale.
L'Iran di Newsha Tavakolian, "And They Laughed At Me" al Mudec di Milano: la ragazza che annusa una rosa - © Newsha Tavakolian
Il profumo della rosa è il profumo della libertà. Che lentamente si perde. E mentre cresce la tensione, lo scontro, la violenza, nel racconto di Newsha la foto si ripete (nella mostra e nel catalogo che l’accompagna) e si modifica, si insanguina, si incendia, viene maltrattata, cancellando e distruggendo prima la rosa e poi la ragazza. Alle foto dell’attualità Newsha affianca le foto degli album di famiglia e della sua vita, dei suoi cari, degli amici, della redazione del giornale in cui lavorava. Foto di svago, di una gita sul mar Caspio e l’ultimo ritratto del papà prima che morisse.
«Gli eventi in Iran mi hanno profondamente colpita: l’ennesima svolta in una spirale di dramma perenne – scrive Newsha Tavakolian –. Mi sono sempre chiesta come mi sarei sviluppata come artista in un altro ambiente. Questa domanda mi ha accompagnato per anni. Questa volta, incapace di andare avanti, come intorpidita, ho scavato nel mio passato, nei ricordi che mi hanno plasmato e in quella che oggi è la storia di chi mi circonda. Anche nel passato - continua la fotografa, che è anche educatrice – ci sono cose che mi hanno segnato così profondamente come persona e come artista che non è facile passare oltre, o come dicono gli iraniani, nasconderle sotto il tappeto. Consapevole dell’impossibilità di cambiare il passato, ma anche della necessità di guardare in profondità, ho ripreso in mano i negativi di quando avevo iniziato a fotografare: dal 1996 al 1999, tra i 16 i 19 anni, gli ultimi della mia prima giovinezza».
Da questo lavoro di recupero della memoria «mi è rimasta impressa un’immagine, che per me è un’icona dell’epoca. Una ragazza annusa una rosa, il fiore che con il suo profumo simboleggia la primavera, la speranza, l’amore e la libertà. Come potrà mai dimenticare quel profumo?». Newsha Tavakolian ripercorre i suoi anni, i sogni di una generazione e fa i conti con la realtà e le sue delusioni. «Il risveglio femminile in Iran non è avvenuto da un giorno all’altro. Nei miei fogli di provini – riprende - ho fotografato studentesse che protestavano. È stata la prima volta che le ho viste arrampicarsi sulle recinzioni perché volevano di più. Nel teatro cittadino di Teheran, ho visto per la prima volta una giovane attrice alzare le mani sopra la testa, mentre fino ad allora i censori permettevano alle donne di sollevare le braccia in scena solo fino all’altezza delle spalle. La nostra generazione stava praticando la libertà di movimento del corpo delle donne: io ho visto tutto questo, ne ho fatto parte. Le mie colleghe dei giornali per cui collaboravo erano intimorite da tutti gli ostacoli opposti dalle famiglie, dalla politica e dalla cultura, ma volevano lavorare e raccontare di quel periodo. Tutte volevamo di più, e presto, prima di cadere nell’abisso dell’età e della delusione che le si accompagna. I costi erano alti. I politici ci sfruttavano e ridevano di me, ridevano di noi».
Il lavoro di Newsha inizia con «molta speranza, ingenuità e fiducia, e continua con la delusione di chi viene spezzato e in qualche modo si rimette in sesto per continuare ancora. E di nuovo si riprende a sperare e di nuovo questa speranza va in frantumi, e si sprofonda nell’oscurità e nella trappola del cinismo». Tuttavia, «nella mitologia iraniana, nell’eterna lotta tra le tenebre e la luce, la luce vince sempre sulle tenebre». L’ultima foto è il riflesso abbagliante del sole. «Ho deciso di riconnettermi a Madre Natura e di lasciarmi guidare da lei d’ora in poi». Sperando che illumini la strada delle donne iraniane e che possano tornare presto a sentire il profumo delle rose. Quello che Samira forse non ha mai sentito.
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