
Conosciamo l’artista messicana Frida Kahlo per la straordinaria energia con cui affrontò il dramma dell’incidente su un tram. Aveva diciotto anni e il colpo la segnò per sempre, spezzandole la colonna vertebrale, e la vita. Il corpo, costretto all’immobilità assoluta e poi serrato dentro un busto rigido tanto da essere prigione, divenne oggetto del suo incessante auto-osservarsi. Si guardava, si auscultava, si ritraeva, si descriveva, intanto del suo trauma sempre più diventando testimone. Qualcosa di quell’implacabile lavoro di introspezione ricorda certa letteratura femminile mistica. Intensità, spietata sincerità di scavo, sino a ottenere sublime distacco da se stessa. «È necessario ridere e abbandonarsi. Essere crudeli e leggeri» scrisse sul suo diario. Crudele e leggero l’occhio che su di sé seppe orientare; e forse di lì, per quel mescolarsi di mite tenerezza e di rigore, il talento di amare. Lei che aveva il cuore emozionato quando sul tram andò incontro alla peggiore delle svolte (viaggiava in compagnia di un giovane studente dal quale era molto presa) amò di nuovo, e moltissimo, nel corso della sua abnorme esistenza, mutilata eppure fiammeggiante.
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