Su queste pagine è già stata illustrata e commentata efficacemente la lettera con cui il presidente Sergio Mattarella ha accompagnato l’atto formale di promulgazione della legge di conversione del cosiddetto Decreto Sicurezza bis nel testo recante le modifiche approvate dal Parlamento; e giustamente si è messo in risalto come l’iniziativa del Quirinale, pur mantenuta su un piano strettamente giuridico, richiami, anche e soprattutto, valori etici tra i più essenziali per una collettività. Merita forse sviluppare un aspetto riguardante più specificamente gli equilibrii istituzionali.
Il presidente della Repubblica sa bene che l’esigenza di non sottostare agli altrui eccessi di potere non legittima sempre e comunque chi è investito di un ruolo istituzionale a compiere a propria volta invasioni di campo; donde, persino la desuetudine all’uso di poteri che pur sicuramente gli spettano come quello del rinvio di una legge alle Camere per un ripensamento. Ciò, però, non lo induce al silenzio di fronte ad aspetti critici che un testo legislativo come questo presenti, e non su aspetti di secondaria importanza, ma in quanto, appunto, suscettibile di interpretazioni e di applicazioni idonee a mettere in crisi princìpi e valori primari.
Prudenza e coraggio, insomma. Che il Presidente non solo esercita in proprio ma con la sua lettera sembra indicare pure a coloro che al di là dei diretti interlocutori d’obbligo - i presidenti di Camera e Senato – e il presidente del Consiglio dei ministri – ne appaiono destinatari, seppur indiretti: le autorità amministrative e giudiziarie, cioè, che saranno chiamate a interpretare e applicare il decreto. In particolare, vien da pensare ai magistrati, la cui eventuale 'disobbedienza civile' di fronte a scelte arbitrarie del potere legislativo passa attraverso alcune strade, peculiari e insieme obbligate: quella della questione di costituzionalità proposta davanti alla Consulta e, prima ancora, quella dell’esercizio del potere-dovere d’interpretare le norme, non solo nelle loro singole espressioni verbali, ma nel loro contesto, senza trascurare le contraddizioni interne ai testi normativi, ma volgendole ad ausilio di una 'lettura' che li renda il più possibile conformi a Costituzione.
Un esempio? Nell’art. 1 del decreto si legge che il divieto d’ingresso di navi di soccorso può essere disposto «nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia», mentre all’osservanza della «normativa internazionale » l’art. 2 richiama i comandanti di tali navi. Nelle intenzioni di qualcuno, molto probabilmente, mere clausole di stile; a darvi sostanza è però la citazione che nella lettera si fa di una convenzione specifica, a sua volta richiamata nel testo normativo, a sostegno dei poteri ministeriali d’imporre quel divieto, e tuttavia suscettibile di ben altre implicazioni.
E che cosa si scopre? Che proprio quella convenzione impone agli Stati di 'esigere' che i comandanti delle navi battenti la loro bandiera prestino «soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo». A chi dovranno obbedire, dunque, prefetti e magistrati che si trovassero ad applicare, o a confermare, inflessibilmente multe e confische in casi di violazioni del divieto? Al dovere di trarre tutte le conseguenze dalla rigidità delle norme che lo sanzionano, pressoché inderogabilmente, in modo pesantissimo? Oppure alla norma giustificativa – anzi, impositiva – del soccorso, logicamente interpretata come da adempiere fino in fondo, ossia fino al momento in cui il pericolo possa dirsi definitivamente sventato con l’approdo a un porto sicuro?
E se optassero – come sembrano imporre le regole costituzionali della gerarchia tra le fonti del diritto, insieme a quelle dell’umanità – per un’interpretazione che privilegiasse l’indicazione della specifica fonte internazionale? Dovremmo aspettarci, esiti della crisi di governo permettendo, oltre all’ennesimo invito a 'scendere in politica' per gli interpreti riottosi al 'verbo' ministeriale, un 'Decreto Sicurezza-ter' che nel modo più esplicito e senza contrappesi facesse dimenticare, in nome del sovranismo, quanto è scritto negli articoli 10 e 117 della Costituzione sulla prevalenza del diritto internazionale?
Ovviamente, il Capo dello Stato non si spinge a prospettazioni come questa. Ce n’è però già quanto basta a sostenere e stimolare quei servitori dello Stato che non si acquetano all’idea che di fronte agli arbìtri del potere non vi sia altra strada tra la rassegnazione e un fai-da-te purchessia. Anche così si può sperare e operare perché la stretta non diventi più forte e senza alternative.
Giurista, Università di Torino