domenica 6 aprile 2025
Dinnanzi all’orrore che ci circonda, dobbiamo riconoscere in questo legame e nella Mano che lo conserva, tutto il nostro vigore e la nostra capacità di resistenza
La speranza, quella cordicella che lega ognuno di noi all'Altissimo
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Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” ospita voci credenti e laiche con riflessioni a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo: qual è oggi la speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali basi edifichiamo i progetti della vita? E la società, a che speranza attinge?


Nel nostro linguaggio corrente spesso si sente affermare – ad onor del vero raramente in latino e il più delle volte in italiano colloquiale e popolare – Spes ultima Dea, la speranza ultima dea. Ci ritroviamo così nell’ambito della nostra cultura romana, latina, dominata dalla mitologia, dal fato, dal mondo degli dei che imperano sul mondo degli umani. Quando si ha l’acqua alla gola diciamo “la speranza è l’ultima a morire” ed accogliamo nella nostra mentalità, il mito greco del Vaso di Pandora: quando fu aperto il Vaso, tutti i mali vennero dispersi nel mondo. Intervenne il potente Zeus e nel Vaso rimase soltanto Elpis – Speranza in greco – che avrebbe dovuto accompagnare la storia dell’umanità e consolare gli umani afflitti. Se poi osserviamo la numismatica ritroviamo una moneta, voluta dall’Imperatore Antonino Pio, raffigurante la consorte Faustina, ormai giunta al di là della storia, che volle raffigurata come la Diva Spes. Donna elegante che, incedendo, sollevava la veste e teneva nella mano destra un fiore in boccio e scortava chi ancora camminava nel tempo e nello spazio.

Quindi la speranza, come la si voglia denominare Spes, Dea, Elpis, percorre la nostra cultura ma contiene ancora molti elementi distintivi della sua origine pagana e di un culto che, oggi, non risponde più ai nostri interrogativi. Per il credente, l’Altissimo, con la sua irruzione nella creazione e nella vita delle sue creature, nel suo donarsi a Mosé nel Roveto Ardente, ci invita ad ascoltare la Sua Parola ed ecco allora comparire la speranza che non è più una dea ma il chinarsi dell’Altissimo su ciascuno di noi. In ebraico speranza suona tikvà. Ricercandone il significato, ecco presentarsi, come racconta il profeta Ezechiele, un uomo che misura il Tempio con una cordicella, tiqvà, appunto. La tradizione dei Maestri d’Israele scende nel profondo del significato: quella cordicella la tiene nella mano l’Altissimo e la lancia a ciascuno e a ciascuna di noi. Possiamo afferrarla e tenerla stretta nel corso del nostro pellegrinaggio terreno oppure non accoglierla. Se la teniamo nella nostra mano sempre ben tesa, consentiamo che l’Altissimo, nostro Padre, ci guidi in tutte le nostre scelte, in tutte le difficoltà.

Egli non abbandona la presa. Noi, giocando sulla nostra libertà, possiamo farlo. Il Salmo grida “Poiché tu sei la mia speranza, Signore Dio; sei la mia fiducia sin dalla mia infanzia” (Sal 71,5). Tutto da Lui scaturisce e fa gorgogliare in noi la certezza della consolazione. Diventerà anche luce per non confondere la speranza con un’emotività nutrita di pseudo ottimismo, speranza che, con il cristianesimo, è diventata una virtù teologale, dono del Padre. Paolo, nella lettera a Timoteo, scriverà “Signore Gesù Cristo, nostra speranza”. In Lui la nostra cordicella rimane sempre vibrante, sempre tesa. Viviamo in un secolo in cui ci dilaniamo, ci facciamo guerra, non abbiamo appreso nulla da quel detto che rimane astratto mentre compare: “La storia maestra della vita”. Gesù Cristo ci attende ebrei, cristiani, mussulmani – ciascuno nella sua propria modalità – possiamo sperimentare quella speranza che è comune ed unifica, perché Egli che è Uno, desidera diventare Uno in tutti noi.

Lo scrittore Amos Elon non invita all’utopia ma ad una concretezza che si chiama Gerusalemme e vi legge tutte le nostre esistenze: «Un bacile d’oro pieno di scorpioni: eppure, allo stesso tempo, tanto amore, e tanta carità, tanta fede, tanta fiducia. Soprattutto, tante speranze, che si esprimono ogni giorno e in ogni parte della città, come è stato sempre, in antiche elaborate parate; in ebraico, in arabo, in greco, in armeno, in francese, in latino, in etiopico e in una dozzina di altre lingue. La città è una culla della speranza. I pellegrini che contro ogni speranza continuano a credere nella speranza, continuano ad arrivare come hanno fatto sempre, in tempi agitati e in tempi di pace. La speranza è una necessità psicologica, un sogno ad occhi aperti. Pieni di speranza o ubriachi di speranza, i pellegrini toccano con la fronte il suolo delle moschee e si battono il petto davanti al Muro Occidentale; si prostrano sul Calvario e baciano la nuda roccia, come se il corpo di Cristo fosse ancora lì, appeso alla croce. Davanti a tanta perseverante pietà e a tante ininterrotte sofferenze si è colpiti, più che dalla forza della fede, dalla sua incapacità di mantenere le promesse. Jerushalaim vive sempre sotto l’incubo di quella sconfitta. Ma quella sconfitta ha in sé una tale ricchezza da diventare una specie di vittoria, disperata ed esistenziale». Chiaramente dobbiamo cambiare mentalità (cioè convertirci) che non significa procedere eliminando le difficoltà, edulcorando gli scontri, vivere in un’aura che sfugge al realismo.

Significa, al contrario, stringere la nostra cordicella non perché noi siamo forti e combattiamo da eroi invincibili, anzi esattamente al contrario: dinnanzi allo spessore dell’orrore che ci circonda, dall’avvolgimento delle crisi economiche, familiari, politiche che premono sul nostro quotidiano, riconoscere in questa cordicella e nella Mano che la conserva tesa, tutto il nostro vigore e la nostra capacità di resistenza. Solo la solidarietà comune, solo l’aggregazione e la condivisione fra noi umani, pur conservando le nostre specifiche identità e i nostri diversi traguardi, potrà far sì che le nostre singole cordicelle si intreccino in un robusto cordame e non si intersichino creando una ragnatela scoordinata che ci soffoca e ci uccide.

Tutti i nostri interrogativi, dal fine vita alla vita dei neo concepiti, può riconoscere la Luce della speranza. La cordicella che un anziano, un’anziana, per quanto colpita fisicamente o mentalmente, tiene nella sua mano, non viene tagliata dalle Parche che presiedono la vita e la morte dell’individuo. Quella cordicella è stretta dalla Mano creatrice, sempre pronta a soccorre ed aiutare. Nascere quindi vuol dire non essere gettati in un groviglio di tempo e spazio da cui non si sa come uscire, ma ricevere il dono di vivere, con una missione affidata. Significa essere preziosi ed unici allo sguardo di Colui che crea e che continua a creare senza abbandonare, neppure per un istante, la sua creazione e la sua creatura. E noi vorremmo legalizzare il taglio della cordicella? Assumerci un gesto che viene a snaturare il valore stesso della vita. Dovremmo invece essere capaci di contagiare con la nostra speranza chi vive in difficoltà, chi ha bisogno di aiuto, magari silenzioso ma vicino, amico e fraterno. E sarà il modo di tenere ben tesa la nostra stessa cordicella.

Allora quel passo, la morte, che tanto costa alla natura umana perché abbandona le sue coordinate, può risuonare come il passo che avvicina a Casa, che rende lode e grazie a Colui che ha fatto il dono dell’esistenza e che ora con la cordicella avvicina a Sé. Gesù, prima di noi, ha compiuto questo passo, in Lui anche noi possiamo, gioiosamente, tendere quella cordicella che ci ha guidati nel nostro pellegrinaggio ed affidarci.

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