Caro direttore, c’è necessità di riconsiderare da un punto di vista alternativo alla visione dominante la questione della povertà e del cosiddetto sottosviluppo. 'Avvenire' richiama a questo da tempo e con diverse voci, e con particolare intensità con vari articoli di Luigino Bruni. I poveri, le aree interne, i Sud del mondo soffrono innanzitutto della mancanza di riconoscimento delle loro scelte e specificità da parte del pensiero economico e politico sinora prevalente. La loro presunta arretratezza nasce in realtà dal fatto che si concepisce un solo tipo di sviluppo, trainato dalla crescita economica, dagli incrementi di produttività, dai consumi. La povertà va combattuta per far ripartire i consumi. Uscire dalle crisi, da quella finanziaria come da quella oggi indotta dal coronavirus, è l’imperativo. Per ricostruire, negli auspici, quello stesso mondo che aveva provocato la crisi economica e la crisi ambientale. Occorre allora ragionare – e questo credo sia l’avvio del percorso che Bruni ci invita a fare – sulla povertà non solo come una condizione da cui uscire (povertà imposta) ma come una condizione consapevole (povertà scelta), per provare a evitare il baratro in cui la crescita senza limiti di prodotti e consumi sta precipitando il mondo. La difesa a tutti i costi degli stili di vita dell’Occidente sta dando origine a una nuova 'umanità', che distrugge gli habitat di animali e piante, e che assiste senza battere ciglio allo sterminio di esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame. L’unica alternativa è decidere e organizzarsi in Occidente per diventare più poveri, ridurre il nostro consumo di terra e di energia.
Essere più poveri non significa la miseria. Anzi, credo che decidere di diventare più poveri e più uguali sia la strada per sconfiggere la miseria anche qui da noi. Contro la prospettiva dissennata che protegge e promuove la ricchezza, anche dei pochi, perché prima o poi sgocciolerà anche nelle tasche dei poveri. Una prospettiva dissennata, da un punto di vista sia umano sia ambientale. Che si è fatta vanto persino di sostenere il lusso e lo spreco, e insegna ai poveri a sognare i sogni dei ricchi, quello di poter attingere prima o poi allo stesso orizzonte di consumi, a ricercare nei consumi la propria identità, il senso della propria vita. Superare la miseria nel mondo di oggi non può avvenire, pena la distruzione del mondo e nel frattempo la distruzione della solidarietà e dell’amore per gli altri esseri viventi dentro di noi, solamente con la pur necessaria redistribuzione del reddito. Si diventa più uguali tassando con equità i patrimoni e i consumi dei ricchi ed estendendo il più possibile i beni che sono di tutti – quelli che vanno sottratti alla compravendita e al mercato: la cultura, la salute, l’istruzione, il paesaggio, la terra –, riportando il valore delle cose al loro valore d’uso, a quello che serve per vivere bene nel rispetto della natura e degli altri esseri viventi. Le persone migliori che ho incontrato nella vita erano povere. Operai che erano fieri di vivere del proprio lavoro, lottavano perché il loro salario fosse sufficiente per un vita degna, e difendevano con il contratto il loro stipendio, ma insieme conquistavano la scuola e la sanità gratuita, e non amavano fare gli straordinari, perché un po’ di consumi in più non poteva valere il prezzo di consegnare ad altri un tempo ancora più grande della propria vita.
E poveri sono gli abitanti dei tanti posti del mondo che difendono le loro terre dalla distruzione a opera dei cercatori di combustibili fossili e di altre materie prime, che stanno distruggendo la possibilità di vivere del proprio lavoro sulla propria terra, e che, prima ancora del diritto a muoversi, rivendicano il loro diritto a restare attaccati alle proprie radici, condizione per potersi muovere liberamente. Che significa partire da luoghi in cui è possibile tornare. Si sono fatte povere, in nome di carità e giustizia, per strappare alla miseria quelli più poveri di loro molte delle persone migliori del secolo che ci sta alle spalle, da Simone Weil a don Lorenzo Milani, a Danilo Dolci. La «bancarotta dell’umanità», come la chiama papa Francesco, ci riporta al punto di rottura della nostra storia che Pier Paolo Paolini colse all’inizio degli anni 60 del Novecento: il consumismo, che aveva inserito tutto il popolo nell’orizzonte economico e culturale della borghesia, e reso impossibile lo stesso pensiero di una vita diversa. In uno dei suoi articoli pedagogici per l’educazione del giovane Gennariello scriveva: «Perché c’è un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura delle classi dominanti. In altre parole la nostra colpa di padri consiste in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese».
Gli anni del dopoguerra furono anni di grandi lotte per la redistribuzione della ricchezza e per permettere alle grandi masse di accedere all’orizzonte dei consumi. La stessa democrazia, lo stesso consenso al potere si misurava su questa promessa di crescita indefinita. La stessa idea d’Europa fu concepita – parole di Ugo La Malfa – come un modo per valicare le Alpi e per non sprofondare nel Mediterraneo. Il fatto è che questa storia è finita. Questo tipo di 'crescita' ha trovato il suo limite ed è entrato in conflitto con la stessa possibilità di sopravvivenza del genere umano sul pianeta. I fattori che generano la diseguaglianza sono oggi in gran parte fuori dalla portata delle stesse, pur sacrosante, tradizionali politiche redistributive delle Stato keynesiano. Le politiche progressiste e sviluppiste sembrano sempre più la ricerca spettrale dei futuri perduti che una risposta alla drammatica e insostenibile situazione presente.