Delle tante dinamiche che destabilizzano il Medio Oriente ce n’è una che rischia di essere mediaticamente oscurata dagli attacchi diretti fra Iran e Israele: il sostegno della Russia agli houthi dello Yemen. Un appoggio ancora limitato ma in crescita, dato anche il rafforzamento della partnership militare della Russia con l’Iran che arma e addestra gli houthi.
Gli indizi sono ormai tanti: gli incontri frequenti tra delegazioni, la presenza di uomini dei servizi segreti militari di Mosca in Yemen, le trattative per la fornitura di armi dalla Russia al movimento armato yemenita (tra cui i missili anti-nave), infine il passaggio di dati satellitari da Mosca agli houthi, via Teheran, per individuare alcune delle navi da colpire nel Mar Rosso.
Questa dinamica nuova si inserisce nella perdurante instabilità del Mar Rosso, a un anno esatto dall’inizio degli attacchi degli houthi contro la navigazione commerciale in “solidarietà con Gaza”. Una crisi di cui non si intravvede la fine, nonostante le meritorie missioni navali difensive che sono state lì dispiegate (anche a guida europea) e i frequenti bombardamenti statunitensi e britannici contro le postazioni militari degli houthi.
Adesso la convergenza tattica fra houthi e Russia, sulla base di comuni interessi anti-occidentali, enfatizza quanto gli equilibri del Mar Rosso, ovvero il bacino che collega il Mediterraneo all’Oceano Indiano, si siano oggi spostati ancora più a est.
Prima del 7 ottobre e quindi dell’inizio degli attacchi alle navi, il Mar Rosso era al centro di una vivace competizione geopolitica tra potenze: tutti rivaleggiavano per aprire una base militare o gestire un porto commerciale.
La destabilizzazione del Mar Rosso ha però aperto spazi d’influenza soprattutto per Iran, Russia e Cina. Non solo in Yemen ma anche, dirimpetto, lungo la costa africana di quello stesso mare, come nel Sudan in guerra. Ora il nesso crescente fra houthi e Russia rafforza questa tendenza. Se davvero il secondo attacco di Israele all’Iran ha significativamente danneggiato la capacità di Teheran di produrre missili, per sé e per gli alleati regionali, ora gli houthi potrebbero essere ancora più interessati alle armi di Mosca. Tra l’altro, quella parte di establishment politico- militare yemenita che stava con il presidente Ali Abdullah Saleh e che dopo la rivolta del 2011 si è alleato con gli houthi (per esserne poi assorbito), conosce molto bene la Russia. Nel 2015, quando l’intervento militare dell’Arabia Saudita contro gli houthi era appena iniziato e l’Iran non li riforniva ancora di massicce quantità di missili e droni, gli (allora) insorti usavano proprio vecchi missili Scud di fabbricazione sovietica sottratti all’esercito regolare. La convergenza tra houthi e Russia porta con sé tre implicazioni. La prima è che Arabia Saudita e Israele si trovano, di nuovo, a condividere percezioni e rischi di sicurezza: se gli houthi hanno un nuovo alleato, nonché fornitore, è un problema per Tel Aviv come per Riyadh. La seconda implicazione è che i buoni rapporti della Russia con Israele e Arabia Saudita potrebbero complicarsi, per di più in una fase di cambiamenti. Per anni, le strategie di israeliani e russi in Siria hanno coesistito, anche se il recente raid di Tel Aviv a Latakia, feudo del regime siriano vicinissimo alle basi militari russe, segna un cambio di clima. Per anni, Vladimir Putin e Mohammed bin Salman hanno concordato il prezzo del petrolio attraverso l’Opec Plus; adesso, però, la scelta saudita di aumentare la produzione del regno da dicembre farà calare il prezzo del greggio, riducendo così le entrate finanziarie di Mosca. La terza implicazione riguarda gli Stati Uniti. Chiunque vinca le elezioni presidenziali dovrà rivedere la strategia americana nel Mar Rosso perché, al netto di missioni navali e strikes, la crisi marittima si sta cronicizzando, spingendo gli equilibri a oriente. Soprattutto se l’attivismo della Russia in favore degli houthi dovesse ulteriormente crescere. Eleonora Ardemagni © RIPRODUZIONE RISERVATA