Lui è nato da 24 ore. Ha già aperto gli occhi, c’è dentro l’indefinibile cielo degli occhi dei neonati. Lo sguardo vaga attorno, come stesse vedendo qualcosa che noi non possiamo vedere. Qualcosa che c’era prima. Qualcosa che tornerà, un giorno. Insistentemente da giovane madre avevo chiesto ai miei figli appena nati: dimmi che cosa vedi, bambino, raccontami cosa ricordi. Ma, niente. Muti. Come diceva un filosofo tedesco del Novecento, Karl Kraus, «di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere».
Taccio, dunque, anche io e guardo il primogenito di mia figlia, assorta, quasi in contemplazione. In effetti un neonato può ben essere oggetto di contemplazione. Da dove arrivi, tu che nove mesi fa non c’eri? Non finirò mai di stupirmi di questo: tu, vivo, nove mesi fa non c’eri. Mi pare il più grande dei misteri, ma non tutti se ne accorgono.
Vedere, guardare, vedere di nuovo, scrisse Hannah Arendt. Vedere, ecco: stamattina la ragazza di un tempo, la pariniana orgogliosa, i capelli ingrigiti, vede meglio, e anche cose che prima non vedeva. Ma sempre stando zitta a osservare gli occhi di lui, quello appena arrivato, quello venuto al mondo da 24 ore.
Devo essere solo grata e felice, lo so, che tutto sia andato bene. E lo sono: grata a Dio, e ai medici e alle ostetriche di questa vecchia Mangiagalli nel cuore di Milano, con i corridoi larghi e luminosi e le finestre grandi su cortili squadrati. Uguale a quando ci sono nata io, e poi il nostro primo figlio; uguale e severa come un’ostetrica d’altri tempi, e silenziosa – tranne che per il pianto rabbioso dei neonati affamati.
Sono felice, eppure avverto come dal fondo del petto qualcosa di dolente. Qualcosa che non torna. È che, bambino, sei nato nello stesso mondo in cui oggi, in questa stessa mattina, a centinaia muoiono su un fronte fermo, ostinato, su un fronte bianco di neve, che forse sta per finire – e tuttavia, ci muoiono ancora. Ucraina, e Gaza, e Siria, e cento guerre dimenticate. Ciò che mi taglia il fiato è che ciascuno, di quelle centinaia di ventenni mandati al massacro, è stato, e non molto tempo fa, esattamente come te oggi, Giovanni.
Ciascuno di quelle centinaia di migliaia è stato aspettato, partorito, allattato, e poi le prime parole, e i primi passi traballanti e audaci. Che ne è stato di loro? Carne da cannone, coscritti, numeri, caricati da terre lontane su tradotte militari, portati alle trincee come bestiame. E lo so bene che succede da sempre, che è successo di peggio, lo so che la guerra è nel sangue degli uomini, incisa dentro, come un bug inestirpabile in un pure fantastico software. Come una crepa nera in un palazzo che potrebbe parere solido, e eretto su generosa fondamenta.
Guardando questo bambino penso a voi, ai sacrificati, ai dispersi, a quelli nemmeno restituiti alle madri. E non soltanto oggi: penso ai compagni di mio padre, alpino in Russia, ai congelati, ai benedetti da un prete, nel gelo, nell’ultimo istante.
So tutto questo. Tuttavia, davanti a un neonato il male radicato nel nostro sangue mi è evidente, e provoca dolore. Che strano dolore, bambino: per quella moltitudine di ragazzi sconosciuti, per me, per tutti. Una pietà più grande di quella di cui ero capace da giovane. Serve a qualcosa forse invecchiare, allora?
Sul piano di questo dolore se ne interseca un altro, e quasi più affilato. Siete in pochi a nascere ormai a Milano, sempre di meno. Anche perché non sono nate, trent’anni fa, le vostre madri e i vostri padri. Mancano: mancano in Italia milioni di bambini. È legale, qui e ovunque, strappare - per tempo naturalmente - quel principio di figlio. É una questione di libertà individuale, e la libertà individuale è il nostro idolo.
Ma su ogni porta di questa clinica è appeso un fiocco azzurro o rosa, e arrivano fiori, e nonni commossi. Perché questi sono, evidentemente, bambini. Quelli concepiti a primavera come te, Giovanni, e buttati via a maggio, erano un niente. E io davvero non mi capacito: com’è che l’ombra intravista nella prima ecografia emoziona i genitori e la stessa ombra, se non è voluta, è un nulla? Com’è che ci siamo abituati a trovare normale, ovvio, che quel principio, se non lo desideriamo, non è un uomo? Io davvero stamattina non so, com’è che non vediamo. Com’è possibile, che non ci accorgiamo.
E questa non è una polemica pro life, anzi, non è affatto una polemica. È solo ciò che accade a vedere, guardare, “vedere di nuovo”, davanti a un neonato: senza alcuna ideologia, senza rabbia, senza rivendicazioni. La realtà si palesa così certa, così evidente. Come a quel bambino che gridò: “Il re è nudo”.
Vedere di nuovo, battendosi una mano sulla fronte con stupore. Semplicemente davanti a un bambino appena nato. Quale sguardo diverso sarebbe: ne verrebbe, forse, un altro mondo. Quale regalo, accadesse anche ad uno soltanto, per questo veniente Natale.