Si diceva che, quando la Germania starnutisce, l’intera Europa prende il raffreddore. Ma oggi sembra più adatta una parafrasi di Woody Allen: Parigi è preda dell’instabilità, Berlino ha perso la sua proverbiale potenza, e anche gli altri 25 Paesi Ue non si sentono molto bene.
Il voto di sfiducia che ha bocciato il cancelliere Olaf Scholz e aperto le porte a elezioni anticipate il prossimo 23 febbraio rappresenta il quarto voto prima della scadenza naturale nella Repubblica federale. Per fare un paragone, in Italia ne abbiamo avuti nove (senza parlare della durata degli esecutivi). Ma dei tre precedenti tedeschi, due erano crisi pilotate dal leader in carica, che poi si è rafforzato nelle urne. Sembra invece molto probabile che il prossimo capo del governo, dopo la coalizione semaforo, sarà di centrodestra. Possiamo aggiungere che in Francia, qualunque cosa accada, non si potrà tornare ai seggi fino al prossimo giugno, e che in Romania è stato annullato l’esito del primo turno nelle presidenziali, cosa mai accaduta nella Ue.
Roma è diventata, a sorpresa, un’isola di apparente governabilità in un Continente nel quale l’orizzonte politico si va incupendo. La nuova Commissione è entrata in carica con la maggioranza più risicata della storia comunitaria, facendo presagire difficoltà nel gestire i principali dossier sul tavolo. E non sono fascicoli leggeri. L’economia rallenta, con l’industria in calo di produttività e redditività. La guerra ai confini orientali dà segnali di un’ulteriore escalation. L’avvento prossimo di Donald Trump alla Casa Bianca rischia di mettere pressione su dazi, Nato e agenda climatica.
In questo quadro, la tentazione è quella di fare da soli, cercando ciascuno di ricavare il massimo o, almeno, di limitare i danni nella fase di transizione che stiamo attraversando. Non è difficile pensare che in Germania le forze euroscettiche, da Alternative für Deutschland a BSW di Sahra Wagenknecht fino alla sinistra di Die Linke, avanzino ancora, spingendo anche agli attuali favoriti, i cristiano-democratici di Friedrich Merz, verso una certa freddezza nei confronti di grandi piani coordinati da Bruxelles. I segnali dello spostamento dell’asse già si vedono sul fronte della gestione dei flussi migratori, dove l’idea degli hub fuori dai confini – il modello Albania che Roma persegue malgrado i fallimenti iniziali – sta guadagnando consensi, in una chiave di autonomia dei singoli Stati e di rinuncia a una politica umanitaria e più lungimirante guidata dall’Unione. Le divergenze sull’Ucraina e quelle prevedibili sull’atteggiamento da tenere con la nuova Amministrazione americana indeboliranno ancora di più i propositi di un’Europa coesa e incamminata in una direzione comune.
L’intera partita mediorientale, pur così vicina a noi, si gioca senza alcun ruolo della Ue, incapace di qualsiasi azione incisiva per provare con la diplomazia a mettere fine alle stragi quotidiane (solo Macron ha avuto un peso, limitato, nella tregua libanese). Nel crollo del mito tedesco, c’è da riconsiderare come la Germania è arrivata fin qui. Nelle scorse settimane, Angela Merkel, per 16 anni alla guida non solo del suo Paese ma di fatto anche dell’Europa, ha pubblicato la sua autobiografia, partecipato a incontri pubblici e rilasciato molte interviste. È stata l’occasione per un bilancio in chiaroscuro, che può essere utile come indicazione per il futuro.
La leadership della cancelliera, basata su una fortunata congiuntura di fattori positivi – economici, energetici e commerciali –, si è troppo spesso limitata alla perpetuazione dell’esistente, capitalizzando il vantaggio e assumendo pochi rischi. Se resta indubbia la statura umana di una donna che ha vissuto sotto il comunismo e mantenuto così a lungo il consenso senza compromettersi con il potere, il giudizio politico va forse rivisto alla luce degli sviluppi recenti sia in patria sia al di fuori. Non si tratta di invocare adesso il coraggio e l’audacia che a Merkel sono in varie circostanze mancati.
Troppo tardi, probabilmente. Bisogna ormai proteggersi dai venti nazionalisti e dalle tempeste che, privi di un ombrello comune, faranno più danni. Sarà forse sperimentare le debolezze che scelte miopi ci stanno provocando a rivalutare istituzioni e sforzi comuni di cui oggi non sembra sentirsi il bisogno. L’integrazione europea, per riscrivere l’adagio di Churchill, è il peggior progetto che abbiamo, esclusi tutti gli altri provati finora.