Salvini con l'avvocato Giulia Bongiorno - Ansa
Chi non ha mai sentito l’espressione “sembra un porto di mare”, per indicare un luogo dove c’è un continuo viavai? Si dice così proprio perché il porto è un luogo aperto per definizione, crocevia di storie e di culture diverse, mescolanza di varia umanità. I porti non si possono chiudere, come cercò di fare Matteo Salvini, perché la garanzia di un approdo sulla terra ferma è qualcosa che ha che fare con il diritto umanitario universalmente riconosciuto, con l’incolumità e la sicurezza di vite. È una norma che non c’è neanche bisogno di scrivere, perché è incisa da sempre nelle coscienze di chi va per mare. Ed è auspicabile che lo sia in tutte le coscienze. Lo abbiamo scritto così tante volte che ai nostri lettori più affezionati sarà venuto a noia, ma non bisogna mai stancarsi di contrastare una narrazione tossica dei fatti.
Allo stesso modo abbiamo sottolineato più volte che non si può realizzare, almeno non in un contesto di legalità, il “blocco navale” sul quale l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha costruito tanta parte delle sue fortune elettorali e che infatti non c’è (e così per il taglio delle accise sui carburanti, rimasto lettera morta; e per la protesta sulla compressione delle prerogative del Parlamento da parte dei precedenti governi per via della fiducia sulla legge di Bilancio, esattamente come sta accadendo sotto il suo governo). Ma prendendo questa strada, che è lunga, rischiamo di andare fuori tema.
Quello che invece conta, dopo la sentenza del Tribunale di Palermo che ha assolto Salvini in primo grado per l’odissea della nave Open Arms (presto sapremo se ci sarà un processo d’appello), è ricordare che ci sono vicende in cui la verità processuale e quella fattuale confliggono. Il verdetto stabilisce che il ministro Salvini non ha commesso i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, che gli venivano contestati: «Il fatto non sussiste». Ma i fatti, ciò nonostante, esistono. E raccontano che quello fu un affronto all’umanità, perché ogni persona ha una sua dignità che nessuno può negargli e che va rispettata fino in fondo. Proprio come una sentenza. Anzi di più.
Oggi sarebbe troppo facile per noi ricordare al signor ministro, il quale anche nell’intervista concessa a questo giornale e pubblicata due giorni fa ha parlato di «radici cristiane» dell’Europa, che ci accingiamo a festeggiare un Bimbo nato in una stalla «perché non c’era posto per loro nell’albergo». Quel Bambino, divenuto Uomo, avrebbe poi indicato nello straniero un essere umano da accogliere.
Ma non è necessario salire così in alto per non giustificare, e in tutta franchezza non comprendere, «l’orgoglio» di un ministro della Repubblica per il fatto di aver lasciato per giorni in mezzo al mare su una nave, sotto il sole agostano della Sicilia, 147 esseri umani: è sufficiente, appunto, il principio di umanità. Salvini dice che «rifarebbe tutto» e gli crediamo. Del resto, non lo ha fatto soltanto nel 2019 con la Open Arms, ma anche l’anno prima con la nave Diciotti della Guardia Costiera. È convinto di avere in questo modo «fermato l’immigrazione di massa, ridotto i morti in mare, protetto gli italiani» e «difeso la Patria».
Ma la Patria si difende da un invasore in armi, come sta facendo il popolo ucraino contro Vladimir Putin, autocrate fino a poco tempo fa ammirato incondizionatamente dallo stesso Salvini. Non si difende da bambini, donne e uomini senza armi e senza niente, che rischiano la vita per disperazione, attraversando un mare che può ucciderli (e che troppe volte li uccide, è successo anche nelle ultime ore in acque greche e marocchine) perché scappano da guerre, miseria, catastrofi, persecuzioni. Civiltà vorrebbe che a loro si tenda una mano, li si porti in salvo e poi si decida dove mandarli. Non necessariamente in Italia, certo. Ma lasciarli in mare per giorni non dovrebbe essere mai un’opzione, in uno Stato di diritto. Men che meno dovrebbe essere motivo di vanto.