martedì 5 novembre 2024
L’imperfezione dei genitori di Umberto Saba insegna che l’ambizione a non sbagliare è fuorviante perché anche il dolore, nella sua accettazione, può essere trasformato in dono
Umberto Saba a Trieste

Umberto Saba a Trieste - Alamy

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Essere genitori qualche volta fa paura. I figli cambiano l’esistenza per sempre, insegnano a vivere con uno sguardo diverso, aprono gli orizzonti. Eppure essere genitori spaventa: possiamo fare un bene immenso ai nostri figli, ma anche lasciare segni indelebili, non sempre positivi. Quante volte di fronte ai difetti o ai limiti di qualcuno sentiamo dire: “Per forza è così, guarda la sua famiglia”? L’esperienza della genitorialità è attesa come la più importante, ma riempie di ansia. Si moltiplicano i manuali su come essere bravi genitori, si studia, si è attenti a tutto. Eppure qualcosa sfugge sempre: ti ritrovi a dire quelle parole che avevi giurato a te stesso di non pronunciare mai, ad avere quegli atteggiamenti che nei tuoi genitori hai detestato. E, allo stesso tempo, a trovare in te risorse che mai avresti immaginato di possedere. Capita di vedere nei propri figli, come in controluce, quel nostro insopportabile difetto, oppure quel nostro pregio, quella nostra caratteristica come trasfigurata. A essere genitori si impara per tutta la vita, e forse non si impara mai davvero.

Umberto Poli, noto come Umberto Saba, uno dei più grandi poeti del Novecento, non ebbe certo genitori impeccabili. Quando nacque a Trieste il 9 marzo 1883 da Felicita Rachele Cohen, figlia di commercianti ebrei, suo padre, Ugo Edoardo Poli, aveva già abbandonato la famiglia. L’unione tra i genitori si era rivelata infelice: il padre si era dileguato. Umberto venne cresciuto da una balia slovena, Giuseppina Sabaz, detta Peppa. Molti anni dopo Linuccia, la figlia del poeta, spiegherà che Umberto avrebbe preso il suo pseudonimo Saba proprio dal cognome della balia: la ricordava come una seconda madre, gioiosa e affettuosa. Felicita, la madre naturale di Umberto, sarà invece descritta da lui come una persona appesantita dalla vita.
Proprio Felicita, quando Umberto ha tre anni, allontana da lui Peppa Sabaz: pare infatti che la balia, cattolica, portasse il bimbo in chiesa e gli insegnasse le preghiere cristiane: tutto ciò era inaccettabile per la madre ebrea. Peppa resterà però il simbolo di un’infanzia felice e perduta.
Negli anni dell’infanzia, la madre non perde mai occasione di inculcare a Umberto una pessima opinione del padre assente, del quale il poeta sente comunque la mancanza. Lo conoscerà a vent’anni, un’età il cui ci si interroga sulle proprie radici. Scoprirà un uomo inadeguato come padre, irresponsabile, inaffidabile, ma non mancheranno le sorprese.

Dell’incontro con suo padre, assente fino a quel momento, Saba parla in un famosissimo sonetto. I primi versi riprendono l’opinione che di lui sua madre gli ha trasmesso:

Mio padre è stato per me “l’assassino”;
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.


“Assassino”: quante volte il poeta avrà sentito chiamare così suo padre da sua madre? Non è difficile da immaginare: «Ci ha lasciati soli, ti ho cresciuto io, lui se n’è andato: è un assassino, un criminale, un delinquente». Eppure quello è suo padre e con tuo padre prima poi devi fare i conti. E quando i conti li fai, vedi tutti i limiti, ma scopri anche ricchezze inattese. Capita a tutti. Cosa vede Umberto Saba in suo padre? Il poeta lo spiega in due versi:

Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.


Questo padre sconosciuto ha lasciato al figlio un dono prezioso. Un dono decisivo: Umberto scopre che la parte migliore di sé gli viene da lui. Quell’uomo ha vissuto il modo sregolato, senza paletti: un pellegrino nel mondo, incapace di radicarsi. Ma, con un brivido, Saba scopre che suo padre ha il suo stesso “sguardo azzurrino”: non sono solo gli occhi dello stesso colore, è la stessa capacità di guardare al mondo:

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.


Ecco allora forse che cos’è il dono inestimabile che questo padre, assassino fino ai vent’anni, ha lasciato al figlio: il suo sguardo sulla realtà, quello sguardo capace di generare poesia. La poesia di Saba infatti è dolorosa, ma anche gioiosa; profonda, ma anche leggera. Leggera come quel padre, che non poteva che sfuggire all’austera moglie:

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.


A Umberto era stata inculcata l’immagine di un padre terribilmente disinteressato, un uomo degno di odio e di disprezzo. Ora lo conosce, guarda i suoi occhi azzurri, ci si rispecchia. Ora lo vede davvero e il dolore di essere cresciuto senza la figura paterna trova un po’ di sollievo. Suo padre è così, non si può cambiare. È la sua natura, il suo carattere. Tra i suoi genitori non poteva che finire a quel modo. Umberto Saba, a vent’anni, si scopre figlio dell’insanabile contrasto tra i pesi materni e la leggerezza paterna. Risente gli ammonimenti di sua madre, che lo invita a non somigliare assolutamente a suo padre. E invece Umberto somiglia tantissimo anche a lui, così come somiglia a lei: il contrasto insanabile, oltre che fuori, è dentro di lui. È un contrasto da due “razze”, dice: un contrasto tra due modi radicalmente opposti di vivere, che entrambi gli appartengono.

«Non somigliare – ammoniva – a tuo padre»:
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.


«Più tardi in me stesso lo intesi»: Umberto sente dentro la lacerazione insanabile tra la parte più tormentata di sé e quella più gaia e leggera. E questa ferita, questa imperfezione, questa scomoda eredità diventa bellezza, si trasforma in poesia: è dono per noi che ancora oggi ci specchiamo in lui, nei suoi versi, e siamo condannati a riconoscerci nel suo dolore, e abbiamo allo stesso tempo la grazia di ritrovarci nella sua gioia.

Non siamo persone perfette; non saremo mai genitori perfetti, nonostante tutti i corsi che frequenteremo, tutti i libri che leggeremo, tutti gli sforzi che faremo. Ma Saba ci ricorda che, dentro i nostri limiti più atroci, possiamo donare alle nostre figlie e ai nostri figli qualcosa di unico e irripetibile: noi stessi. E questo seme genererà vita, in modi per noi inattesi. Il nostro meglio fiorirà; ma, e questo consola e commuove, fiorirà anche il nostro peggio. Una ferita inferta diventerà forse empatia, una nostra chiusura diventerà forse il coraggio dei nostri figli di infrangere limiti e barriere. La vita trova la sua strada: per questo l’ambizione a non sbagliare mai è fuorviante: il nostro compito è invece mettercela tutta, provare a donare la parte migliore di ciò che siamo, perché i nostri figli possano, un domani, donare a loro volta. Anche questo fa parte dell’esperienza di Umberto Saba, che ebbe un’unica, amatissima figlia. In una poesia, “Ritratto della mia bambina”, le descrive così:

La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva vesticciola: «Babbo
– mi disse – voglio uscire oggi con te».


Linuccia ha gli occhi «colore del cielo». Occhi azzurri dunque: come suo papà, come suo nonno. Ma le sorprese non sono finite. Umberto ha occhi del poeta e i poeti, si sa, trovano connessioni misteriose tra le cose, evocano immagini. Come descrivere una bambina piena di vita, con in mano la palla, che chiede al papà di uscire a giocare? Come racchiudere in pochi versi tutta questa esuberanza di gioia, tutta questa potenza, tutta questa energia che dilata il cuore, che fa intuire qualcosa di immenso? Umberto usa tre immagini, semplicissime e mirabili al tempo stesso:

Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.


La schiuma del mare, il fumo che esce dai comignoli, le nubi che si fanno e disfano in un cielo chiaro: questa è Linuccia. Questa, verrebbe da dire, è l’infanzia in generale. Questa è la vita del bambino che è in noi, da tenere vivo a tutte le età, perché il mondo possa essere guardato sempre con un briciolo di incanto che vince il cinismo.
Linuccia è paragonata a “cose leggere e vaganti”, proprio come leggero era suo nonno. Una leggerezza che, da limite, è ormai trasfigurata in un prezioso lascito attraverso le generazioni.

Insegnante e scrittore


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