martedì 5 novembre 2024
Prima che si chiudano le urne per l’elezione del presidente chiamato a guidare gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni, c’è già uno sconfitto: la stabilità democratica
Elettori votano nella hall del Museo di Brooklyn

Elettori votano nella hall del Museo di Brooklyn - ANSA

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Prima che si chiudano le urne per l’elezione del presidente chiamato a guidare gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni, c’è già uno sconfitto. La stabilità democratica, fatta di ordinato esercizio e passaggio dei poteri in un contesto di garanzie liberali, non è più così granitica nell’America che oggi è andata al voto. Abbiamo visto un Paese così spaccato dal punto di vista ideologico da non riuscire più a dialogare, in cui si attenta alla vita dei candidati, si auspica l’eliminazione dei rivali e dei giornalisti, si minaccia di non riconoscere la volontà espressa dalla maggioranza dei cittadini, si bolla come “spazzatura” chi non la pensa come la propria parte, le inchieste giudiziarie svelano trame illegali, si tenta di restringere l’accesso ai seggi, gruppi stranieri influenzano la campagna con ondate di disinformazione... E l’elenco sarebbe troppo lungo da riportare per intero.

Quello che succederà da stanotte ai prossimi giorni darà la misura dell’emergenza e del possibile contagio oltre i confini statunitensi. Se ci sarà un vincitore chiaro, riconosciuto dall’avversario e legittimato nelle sue prerogative, la crisi non verrà sanata ma almeno circoscritta. Qualora, invece, assistessimo a un’indisponibilità ad accettare il risultato, ricorsi e contestazioni a vari livelli (con il rischio di violenze), si consumerebbe un ulteriore strappo, difficile da ricucire dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Questo è il contesto in cui i cittadini americani scelgono in queste ore tra Kamala Harris e Donald Trump, in un testa a testa serratissimo che non lascia spazio a previsioni affidabili, stante anche il complesso meccanismo che premia le vittorie nei singoli Stati e non i suffragi totali.

Si va alle urne pure per rinnovare il Congresso, vitale per il bilanciamento dei poteri e gli spazi di manovra del nuovo presidente. Facile dire che il candidato repubblicano è il primo responsabile della situazione sopra descritta. In realtà, rispetto al 2016, il tycoon non è più un outsider, l’imprenditore che tenta la corsa alla Casa Bianca puntando sullo scontento delle classi lavoratrici bianche senza avere nemmeno il pieno appoggio del suo partito. Oggi, il tycoon fa parte del sistema, anche se vorrebbe trasformarlo radicalmente in senso autoritario-libertario. Ha ridisegnato i repubblicani a sua immagine; può contare su imprenditori tra i più ricchi e innovatori, a partire da Elon Musk; raffinati centri di ricerca gli offrono piani di riforme drastiche; ha conquistato anche le comunità di origine straniera di più antico radicamento con la contrapposizione ai nuovi migranti, che dipinge come criminali e promette di deportare in massa. Di fronte a lui l’alternativa è la vicepresidente uscente, catapultata nell’arena a pochi mesi dalle elezioni in seguito all’uscita “forzata” dalla scena di Joe Biden, con quello che è stato un’indubbia ferita alle procedure consolidate.

Harris è l’esponente nera di origini indianogiamaicane chiamata a superare il rivale diretto e pure una selva di pregiudizi che accompagnano ancora l’ascesa di una donna figlia di immigrati. È lei, peraltro, la figura dell’establishment progressista sostenuta quasi senza eccezioni dal mondo della cultura e dell’intrattenimento hollywoodiano. Ha commesso meno errori di Hillary Clinton, lanciando un messaggio più inclusivo, ma non è stata in grado di costruirsi una immagine di leader, e viene tuttora percepita da parte dell’elettorato come l’espressione dell’élite più interessata alle questioni del politicamente corretto che al lavoro e al reddito dei lavoratori. L’aborto insieme alle migrazioni e all’inflazione è il tema che ha acceso di più gli animi. Se la componente femminile sembra mobilitata per l’esponente democratica, le comunità cristiane, cattolici compresi, potrebbero inclinare più per Trump visto come un “peccatore” che però promette di difendere alcuni valori chiave (seppure non tutti).

È il segno della “grande divisione” che attraversa l’America, tornata a livelli di polarizzazione fra i due principali partiti che non si sperimentavano da decenni. Complicato dire che esito dovremmo augurarci. Harris garantisce continuità interna e certamente meno scossoni per la vecchia Europa, che guarda in ordine sparso all’altra sponda dell’Atlantico, con i sovranisti a sperare nel successo del tycoon, sebbene egli non sia per nulla ben disposto verso la Ue. Ma i sommovimenti globali legati a questo voto, comunque vada, riguardano numerosi ambiti che sono stati trascurati nella lunga vigilia. Il primo è il crollo di fiducia nelle istituzioni liberali e nella rappresentanza politica: gli Usa sono quasi sempre all’avanguardia nelle tendenze globali. Come proveranno ad affrontare questa emergenza, davanti al frantumarsi del consenso e dell’obbligo politico che regge le nostre società? Il populismo è la via imboccata da entrambi gli schieramenti, se pure a sinistra le star del pop sono chiamate a mobilitare i giovani più di programmi e sogni per un futuro migliore. Gli echi inevitabilmente si riverbereranno a Bruxelles come a Roma. E poi il cambiamento climatico come fattore geopolitico, non solo ecologico o industriale. Causa spostamenti di popolazioni e conflitti, rimescola le alleanze e modifica le scelte strategiche: quale sarà la linea della futura Amministrazione: isolazionismo ambientale o cooperazione internazionale? L’approccio alle tecnologie emergenti e all’intelligenza artificiale in particolare si sta trasformando in questione direttamente connessa alla sicurezza, ai diritti e alle disuguaglianze. Prevarrà la visione della crescita con poche regole o quella della responsabilità allargata nella patria dei giganti che dominano il mercato digitale? E non va dimenticata la crescita di un protezionismo senza colori di partito. Conservatori e progressisti sono uniti nella difesa delle imprese e dei lavoratori americani come priorità da perseguire anche a scapito degli alleati. Ecco perché le elezioni Usa ci riguardano e non saranno senza effetti importanti. Come si dice durante le turbolenze nei viaggi aerei, teniamoci forte.

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