sabato 26 ottobre 2024
Tel Aviv ha dimostrato che non teme il suo nemico principale e lo può raggiungere con facilità. Per ora il rischio di allargamento del conflitto sembra scongiurato, ma per quanto?
La partenza di un jet israeliano impegnato nei raid in Iran

La partenza di un jet israeliano impegnato nei raid in Iran - ANSA

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Ancora ore di guerra che hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso. L’altra notte, alla notizia del raid israeliano sull’Iran, anche i media più informati non potevano non chiedersi se fossimo sull’orlo di un conflitto su larga scala dalle conseguenze imprevedibili. Un giorno dopo possiamo sperare che questa eventualità sia stata per ora scongiurata, ma non possiamo scordare che, come un monito persistente, l’“orologio dell’Apocalisse” atomica, gestito dagli scienziati del settore all’università di Chicago, segna solo 90 secondi dalla mezzanotte della catastrofe.

Che abbia avuto successo la pressione americana o lo stesso premier Benjamin Netanyahu si sia voluto limitare nella rappresaglia ai missili scagliati da Teheran sullo Stato ebraico il primo ottobre, quella lanciata sabato non è stata, volutamente, un’offensiva devastante. La coltre di silenzio sui bersagli e sulle perdite fatta calare sia da chi ha sparato sia da chi ha subito fa intendere che si voglia, al momento almeno, fare prevalere gli aspetti simbolici di una partita in ogni caso estremamente pericolosa.

Tel Aviv ha dimostrato che non teme il suo nemico principale e lo può raggiungere con facilità. L’ayatollah Ali Khamenei, dopo essersi mostrato in pubblico con un fucile mitragliatore, ha la possibilità di manifestare feroce determinazione a parole senza dovere subire l’umiliazione di rovine fumanti trasmesse in mondovisione.

Qualunque siano i danni che gli oltre cento caccia israeliani hanno inflitto all’industria militare del regime sciita, resta chiaro che l’Iran sta perdendo sui fronti dove ha scatenato i suoi alleati regionali, da Hamas a Hezbollah, e deve ora decidere come reagire. Ciò che è filtrato finora segnala l’intenzione di non rispondere militarmente a stretto giro. Forse si intravede persino una sorta di tregua non dichiarata rispetto agli attacchi diretti fra i due Stati.

Quanto potrà durare dipende da una partita strategica e politica molto delicata, che ha il suo snodo più prossimo nel voto per la Casa Bianca il 5 novembre. Joe Biden sarà presto fuori dai giochi, eppure è riuscito a contenere l’escalation più temuta. Non ha avuto invece successo nel convincere Netanyahu alla moderazione a Gaza e in Libano, dove la situazione, nel nord della Striscia e a Beirut come nel Sud del Paese dei cedri, sta precipitando per la popolazione civile.

Ci si deve chiedere che cosa accadrebbe con un ritorno di Donald Trump come Comandante in capo Usa. Lascerà mano libera a Tel Aviv perché tenti di distruggere il programma nucleare di Teheran e altre sue infrastrutture, una mossa che i vertici israeliani pianificano da tempo come passo finale per annullare quello che considerano il pericolo più grave per la sua stessa sopravvivenza? Non è un caso che l’opposizione all’attuale governo si sia lamentata dell’esiguità del colpo all’Iran. Tuttavia, la partita è complicata dalla presenza di altri attori rilevanti, a partire da Russia e Cina che hanno accolto l’Iran nei Brics e non sono per nulla orientati a permettere che si rafforzi un ordine mondiale sotto lo scudo americano.

Mosca e Pechino non sono pregiudizialmente ostili a Israele, ma hanno cinicamente interesse che in Medio Oriente la situazione resti infiammata e incerta, tenendo sotto pressione la Nato e l’Occidente, distraendoli anche dal fronte ucraino. (Con l’aggiunta della lontana Corea del Nord, con missili, testate e una leadership spregiudicata).

Di certo, non può proseguire a lungo la guerra guerreggiata di Tel Aviv su tanti versanti, malgrado la sua superiorità bellica, tecnologica ed economica. E, soprattutto, non possono ripetersi a ritmo quotidiano le terribili stragi di civili, in un bilancio che nella regione dal 7 ottobre 2023 ha reclamato ormai 50mila vittime. Se si arrivasse rapidamente a una tregua in Libano e Gaza, anche gli ayatollah potrebbero evitare un’ulteriore escalation e lasciare spazio alla diplomazia. Ma è evidente che non bastano più gli auspici, le condanne, gli appelli. Il caso dell’Unifil finita sotto il fuoco senza poter agire concretamente chiede che si mettano in campo opzioni credibili e strumenti operativi efficaci per riportare la legalità internazionale e avviare un vero percorso di pace, con un dialogo a livello di Nazioni Unite.

L’Iran deve dare garanzie - e permettere in merito controlli di autorità indipendenti - di non volere realizzare un arsenale nucleare ostile. Israele, cui va assicurata la protezione da minacce esistenziali, è chiamato a ridare la possibilità a palestinesi e libanesi di ricostruire e riavviare la propria vita nazionale. Forze di interposizione adeguate devono essere messe in condizione di vigilare su un nuovo status quo. Il sollievo dopo le 6 ore di paura non può farci dimenticare che questo è il compito urgente cui anche l’Italia, insieme all’Europa, ha il dovere di contribuire attivamente. Altrimenti, ci saranno altre notti e altre albe in cui saremo rischiosamente affacciati sul baratro.

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