Imago mundi
I miei nonni Maria e Doroteo, che da tanti anni non ci sono più, restano due delle persone più significative della mia vita. Da bambino trascorrevo con loro molto tempo: con mia nonna giocavo a fare il prof, condividendo con lei racconti e poesie, con mio nonno esploravo il mondo in bicicletta e lui mi faceva notare ogni dettaglio della natura come se fosse un miracolo. Quando penso a cosa significhi amarsi davvero, mi vengono in mente loro due. Un amore, il loro, molto distante da certe deformazioni passionali e romantiche. Ricordo una studentessa che, tutta seria, mi disse, citandomi forse un qualche poeta: «L’amore sono due aquile chiuse in una gabbia molto stretta, che non hanno spazio per muoversi e allora si squarciano il petto a vicenda». Di fronte a questa immagine rimasi turbato: quello, più che amore, mi sembrava sadomasochismo; più una scena da film horror che il simbolo di un sentimento, per quanto forte.
Un’altra volta, un’amica mi disse: «L’amore è alchimia, è totalmente incontrollabile». Pensai che era un’immagine affascinante, pure una bella frase da serie tv forse, ma che se l’amore fosse solo irrazionalità e passione, e non anche discernimento e scelta, sarebbe molto simile a una malattia contagiosa: qualcosa che o hai non hai, e non decidi tu di avere. E pensai anche che a me non piacerebbe amare ed essere amato senza che ci sia anche una scelta, quindi una libertà che si dona e si mette in gioco, perché la libertà è una delle caratteristiche fondamentali per costruire ciò che siamo, per decidere ciò che davvero conta per noi. Un’altra volta ancora mi raccontarono di un noto personaggio che in una conferenza aveva affermato: «L’amore può risolvere ogni problema. Se ami qualcuno, il tuo amore lo può cambiare». Anche in questo caso fui molto turbato da quelle affermazioni: se fossero vere, l’amore sarebbe una forma di manipolazione! Ma l’amore non pretende di cambiare le persone secondo i propri desideri, le accoglie per ciò che sono. Poi, certo, amare ed essere amati fa emergere il nostro lato migliore, ma non cambia chi siamo. Aspettarsi che l’altro cambi secondo i nostri desideri e, a volte, secondo i nostri capricci, è una illusione fuorviante e pericolosa, che può persino portare ad accettare situazioni che non dovrebbero essere tollerate.
Mi impressiona negativamente anche l’archetipo assai diffuso secondo cui, quando si ama, l’altro diventa il fine della nostra esistenza, il senso dei nostri giorni. «Tu sei la mia vita», «Senza di te la mia esistenza non avrebbe uno scopo»: queste sono frasi pericolose, che assolutizzano l’altro; frasi che nascondono un desiderio di possesso tossico o che caricano la persona amata di un peso insopportabile: dare senso a una vita che, senza di lei, sarebbe vuota. I miei nonni, nonostante tutti i loro limiti, mi hanno insegnato con la loro vita che nell’amore il sentimento è fondamentale, ma è altrettanto decisivo scegliersi giorno dopo giorno. Mi hanno insegnato che per amare bisogna essere capaci di stare in piedi da soli. Perché l’amore non è la meta del viaggio, è il cammino stesso. Il loro cammino è stato spesso accidentato. Il loro amore non è stato ideale. Hanno avuto alti e bassi; hanno avuto vite felici, ma anche difficili. Eppure hanno scelto di essere fedeli al bene che si volevano e di camminare insieme, fino alla fine.
Quando penso a un’icona dell’amore, mi viene in mente mia nonna a fianco di mio nonno in un torrido pomeriggio estivo. Mio nonno non era stato bene, era finito all’ospedale. Tutti i giorni, mia nonna stava con lui dal mattino alla sera. Quando andavo a trovare mio nonno li trovavo insieme, in silenzio, mano nella mano. Quella mano stretta era un «ti amo» immenso: era come se mia nonna dicesse a mio nonno che lo amava non perché lui la faceva stare sempre bene (essere in ospedale per otto ore al giorno col caldo di certo non è il massimo), ma perché lui era lui e lei desiderava camminare con lui anche in quel momento. Quel pomeriggio mio nonno dormiva. Mia nonna lo guardava. Ad un certo punto si rivolse a me. Ne nacque un dialogo assai surreale.
«Guarda com’è diventato brutto, poverino!»
«Ma nonna! Dai, il nonno sta male: non puoi dire così!»
«Certo che posso. È vero. E pensa che da giovane era bellissimo. Biondo, coi baffi. Un fico, come direste voi!»
«Nonna!»
«Un fico proprio. E adesso… guarda com’è conciato!»
Non sappi cosa replicare, così tacqui. Mia nonna tornò a guardare mio nonno, scosse la testa. Poi indugiò un attimo e aggiunse la frase che cambiò tutto: «Però… però ha ancora dei bei piedi!»
Al momento mi venne da ridere; oggi invece ripenso a quella frase e mi commuovo, perché credo che lì dentro ci sia l’essenza dell’amore. Di tutte le frasi fatte che sull’amore si sentono, se ce n’è una vera è che l’amore cambia il modo di guardare. Non perché idealizza l’altro (l’idealizzazione non è amore, ma creazione di un feticcio mentale che risponda ai nostri bisogni), ma perché spinge a cogliere nell’altro una bellezza sempre presente, nonostante tutto. «Sei messo male, ma io colgo in te qualcosa di luminoso, di affascinante»: penso che mia nonna stesse dicendo questo, attraverso quell’immagine un po’ ironica. E riusciva a dirlo perché solo chi ama vede l’altro davvero; vede la bellezza dietro la ferita, lo splendore incarnato nel limite, la dignità che rompe la prigione dell’umiliazione, la scintilla sotto la cenere.
Che l’amore sia un cammino e non la meta, che l’amore viva nei limiti inevitabili di ciascuno, che l’amore sia questione di sguardo lo ha scritto benissimo uno dei più grandi poeti del Novecento, Eugenio Montale, in una celeberrima poesia dedicata a Drusilla Tanzi, la sua defunta moglie. La poesia inizia così:
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
L’amore tra Eugenio e Drusilla non è stato ideale. Eugenio ha amato anche altre donne. Ma Drusilla è quella con cui ha scelto di camminare, gradino dopo gradino, fino alla fine. I due amavano viaggiare, ed era proprio Drusilla a occuparsi dell’organizzazione di quei viaggi. Ora che il viaggio di Eugenio continua senza di lei, il poeta si sente perduto:
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
La realtà non è quella che si vede: c’è un mistero in più che l’amore può fare intuire, sembra dirci il poeta. Che, nel finale, torna sul tema dello sguardo, riferendosi alla forte miopia di Drusilla, per la quale la donna veniva soprannominata Mosca, dato che indossava occhiali grandi e spessi.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Sulle scale, nella vita passata, era Mosca ad appoggiarsi al poeta. Ora Eugenio afferma il contrario: era lui in realtà ad appoggiarsi a lei, perché la miope Drusilla era paradossalmente una donna che sapeva vedere nel profondo la realtà e le relazioni, dando sicurezza al poeta. Era Drusilla la sola ad avere buone pupille dell’anima. Che l’amore cambi il modo di vedere le cose è un’esperienza che anche mio nonno Doroteo fece dopo che mia nonna, improvvisamente e prima di lui, era mancata. Mio nonno continuò a vivere da solo per qualche mese, prima che la sua salute si aggravasse. Un giorno entrai in casa sua, mi sedetti al tavolo con lui. Mi fissò, mi chiese: «Dov’è la nonna?». Mi sentii gelare. Mia nonna era morta. Lo aveva scordato? Stava andando fuori di testa? E io che dovevo fare? Dirgli che la nonna non c’era più o lasciarlo cullare nella sua crudele illusione? Scelsi la verità: «Nonno, la nonna se n’è andata… non c’è più, ti ricordi?». Fece un gesto infastidito: «Lo so che è morta. Ma era qui che mi parlava fino a un minuto fa. Poi sei arrivato tu e ha smesso. Perché non te ne vai, così torna a farmi compagnia?»
Liquidai la questione come i deliri di un anziano. Solo anni dopo mi resi conto che avevo assistito al miracolo dell’amore: mia nonna Maria e mio nonno Doroteo si erano tenuti per mano così a lungo che continuavano il loro cammino insieme, anche se in un modo diverso; un modo che al mio sguardo sfuggiva, ma non a quello di mio nonno. Maria forse ancora parlava davvero a Doroteo: forse quei loro dialoghi muti erano la prova che l’amore, nella sua forma più pura, ha in sé una scintilla di eternità. Mio nonno morì otto mesi dopo mia nonna. Le ultime volte che andai a trovarlo, la sua sofferenza mi straziava, ma la sua serenità nei pochi momenti di lucidità mi colpiva, non la capivo. La compresi dopo il suo funerale, sistemando le sue cose. Trovai un libro che aveva regalato a mia nonna negli ultimi anni, quando già la sua salute era molto precaria. C’era una dedica tremolante sulla prima pagina, scritta con mano malferma. Diceva: «Alla donna migliore del mondo, con eterna riconoscenza. Tuo marito». Doroteo già allora scriveva di eternità. Per questo era sereno: perché sapeva che Maria lo aspettava.
Insegnante e scrittore
(11 - continua)