martedì 31 dicembre 2024
La lezione di un maestro elementare: coltivare i talenti di ciascuno, suscitando tra gli allievi la fiducia nelle proprie capacità. Decisivi gli insegnanti che vivono il lavoro come una vera missione
Ricordi positivi, il tesoro per la vita nato tra i banchi di scuola
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Un giorno, durante un viaggio, incontrai un insegnante straordinario. Uno di quelli che non fanno notizia, ma cambiano la storia. Faceva il maestro nella scuola elementare di una grande città di mare, in un quartiere degradato e difficilissimo. Era pieno di energia esplosiva: rideva, scherzava, raccontava di tutto. Svolgeva il suo lavoro in uno dei contesti socialmente più difficili d’Italia, ma questo sembrava centuplicare le sue forze e la sua voglia di vivere. Parlava con un’ironia contagiosa, anche se entrava in contatto quotidianamente con situazioni drammatiche.

Mi raccontò che una volta, un ragazzino si era presentato a scuola elegantissimo. «Che bello, festeggi qualcosa?», aveva chiesto il maestro. «Sì! È morto mio cognato!», aveva risposto quello. «Cosa?». Il maestro era certo di aver capito male. Si sbagliava. «È morto mio cognato!», aveva ripetuto allegro il ragazzino. «E perché festeggi, allora?». «Perché mio papà lo sostituisce nel clan, fa un salto di carriera!», aveva spiegato il ragazzino, tutto fiero. Una morte che generava una progressione nella criminalità organizzata: questo era dunque il motivo della festa.

In un’altra occasione, un bimbo dormiva serafico sul banco di scuola. Il maestro lo aveva svegliato con delicatezza. Da lì era nato un dialogo surreale. «Che c’è, sei stanco?». «Si, maestro. Stanotte non ho dormito...». «Perché? Hai guardato la televisione fino a tardi? ». «No». «Hai giocato ai videogiochi?». «No». «E allora che hai fatto?». «Sono uscito con papà. Ho fatto il palo per lui». Un bimbo utilizzato come palo per rubare: anche questo accade spesso in quei mondi non troppo lontani da noi, ma che preferiamo non guardare, perché fanno troppa paura.

Il maestro, invece, in quel mondo dava tutto sé stesso. Da dove veniva tutta quella energia? Lo capii continuando la chiacchierata con lui: gli veniva dalla forza della vita, dalla bellezza che a volta splende più forte di ogni bruttura, da quei germogli testardi che, se li sai assecondare, bucano anche l’asfalto più grigio, più soffocante. Questo era esattamente il compito che il maestro si dava ogni giorno e che, talvolta, portava frutti insperati, meravigliosi. Uno di questi frutti era un ragazzino che credeva di avere dei problemi di memoria. Il maestro era all’inizio della sua carriera, era ancora supplente. Era entrato in una classe e quel ragazzino gli si era avvicinato facendo un’affermazione perentoria: «Maestro, io non funziono». «In che senso, scusa?». «Nel senso che la memoria non mi funziona». «Perché dici così?». «Perché non riesco a imparare a memoria le poesie che la maestra ci dà da studiare. Non mi restano in testa. Devo avere qualcosa che non va: la mia memoria deve essere danneggiata, per questo non funziona». Il maestro lo aveva guardato benevolo: «Secondo me dovresti fare un’altra prova». «Quale?» aveva chiesto il ragazzino, speranzoso. «Tu oggi vai a casa, scegli una canzone che ti piace, la impari a memoria e domani me la reciti tutta. È un test, così vediamo com’è la tua memoria. Va bene?». «Va bene, maestro». La mattina dopo il ragazzino era entrato in classe tutto felice. «Allora, hai fatto quello che ti ho chiesto?» gli aveva domandato il maestro. «Sì!» aveva risposto lui, entusiasta. E non solo gli aveva recitato il testo di una canzone a memoria, gliela aveva addirittura cantata davanti a tutti; i compagni, alla fine, erano esplosi in un lungo applauso. Il maestro lo aveva guardato soddisfatto: «Hai visto? Il problema non sei tu, è che le poesie che devi studiare non ti piacciono abbastanza. La tua memoria è a posto. Tu funzioni».

Erano passati tanti anni. Un giorno il maestro passeggiava in un’altra città. In mezzo alla gente, uno sconosciuto lo aveva fermato: «Maestro!». Lui non lo aveva riconosciuto. «Maestro, lei è stato mio supplente quando ero alla scuola elementare! Ero quello che credeva di avere qualcosa fuori posto nella memoria e lei mi ha fatto cantare una canzone davanti a tutti i miei compagni, per dimostrarmi che il mio cervello era a posto!». Il maestro a quel punto si era subito ricordato, aveva intravisto il bambino di ieri sotto la scorza dell’adulto di oggi: «Ma certo! Come stai? Che ci fai qui?». «Ora vivo in questa città. Mi sono trasferito qui perché ho studiato medicina e sono primario all’ospedale». «Che meraviglia, complimenti!». «Io non l’ho mai dimenticata, maestro. Tanti anni fa, con quella canzone, lei mi ha fatto capire che potevo credere in me stesso. Il cammino che mi ha portato qui è iniziato quel giorno, perché lei mi ha dato la certezza che io funziono».

Ho sempre amato Giovanni Pascoli: una passione che è stata accesa in me dal mio insegnante di lettere della scuola media che un giorno entrò in classe con una piccola dispensa su quel poeta per ciascuno di noi. L’aveva pazientemente assemblata lui stesso, visto che Pascoli era uno dei suoi poeti preferiti. Così, non molto tempo dopo, mi feci regalare per Natale dai miei genitori un libro che raccoglieva le migliori poesie di Pascoli. Quella stessa mattina, scartati i doni, aprii una pagina a caso: mi imbattei in un componimento molto poco noto, che inizia così: Allora... in un tempo assai lunge felice fui molto; non ora: ma quanta dolcezza mi giunge da tanta dolcezza d’allora! Pascoli, segnato da una tragica giovinezza, non ha certo una visione ottimista della vita; nelle sue poesie spesso esprime paure, angosce, pensieri di morte e desiderio di protezione. In questo testo, tuttavia, parla di felicità. Una felicità collocata in un passato lontano, quasi magico, ma assolutamente reale. Un’epoca che ancora, in qualche modo, illumina il presente di una luce benefica. Quell’epoca poi, nei versi del poeta, si restringe. Diventa prima un anno, poi un giorno, poi un punto. Ma un punto di una positività insopprimibile, per quanto fuggevole: Un punto!... così passeggero, che in vero passò non raggiunto, ma bello così, che molto ero felice, felice, quel punto! Certi ricordi di infanzia sono indelebili e restano per sempre in noi. Possono essere distruttivi oppure benefici. Nel finale de I fratelli Karamazov l’immenso Fëdor Dostoevskij lo afferma a chiare lettere: i ricordi belli da bambini sono sacri e chi porta con sé molti di questi ricordi sarà salvo per sempre. Perché, anche se diventerà un adulto cinico e spietato non riuscirà a ridere fino in fondo della sua ingenuità di allora. Nel suscitare ricordi positivi, la scuola e gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale. È esattamente quello che ha fatto il maestro di cui più sopra ho parlato, dando fiducia a un ragazzino cresciuto in un contesto problematico e poi diventato primario.

Per generare ricordi positivi, è fondamentale credere nelle persone che si incontrano tra i banchi di scuola. Credere nelle loro capacità, nella loro intelligenza. Anzi, nelle loro intelligenze, perché non bisogna dimenticare mai che le intelligenze sono multiple: ognuno ha talenti propri, diversi da quelli degli altri, e l’abilità dell’insegnante è proprio quella di far fiorire il talento, unico e irripetibile, di ciascuno. In questo modo la didattica non si limiterà a trasmettere nozioni aride ma porterà a fare esperienze di un reale buono, un reale nel quale ciascuno studente ha la sua parte e può dare il proprio contributo. Perché ciascuno studente, come quel ragazzino disorientato, funziona. Tutti noi funzioniamo. I nostri figli, i nostri allievi, funzionano, ciascuno a modo suo.

Ripenso a quel maestro. Incontrarlo per me è stato un dono. Come sono un dono tutti gli insegnanti di periferia, che accettano sfide enormi in contesti difficili, trasformando ogni giorno il loro lavoro in una missione decisiva. Ricordo una prof che mi disse: «Il mio successo è quando al termine del primo anno di professionale tutti i miei studenti riescono a stare per un’ora intera seduti al banco in silenzio, alzando la mano prima di intervenire». Per me, privilegiato docente di liceo, quelle parole furono una grande provocazione: mi ricordarono che una didattica di successo parte sempre dalle classi reali che si hanno davanti; che l’importante non è l’altezza della vetta che si raggiunge ma il dislivello che si riesce a compiere insieme: l’ascesa, non la meta in termini assoluti.

(16-fine)

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