Agenzia Romano Siciliani
Con il Vaticano II, per la prima volta nella storia, un Concilio ha provveduto a mettere a tema e ad accordare credito alla figura dei laici, per riconoscerli come "soggetti" attivi della missione della Chiesa, non più soltanto come terminali passivi della cura d’anime. Una tale concentrazione d’interesse sui comuni battezzati ha fatto sì che sul piano dell’immaginario credente l’ultimo Concilio, anche sotto questo specifico profilo, abbia potuto essere avvertito come un evento che ha fissato un vero e proprio discrimine epocale fra il "prima" e il "dopo". A confermarlo è che all’indomani dell’assise la sensibilità dei pastori nel considerare l’identità e la vocazione dei fedeli laici è davvero mutata, quasi di colpo; allo stesso modo, fra questi ultimi è andato sempre più crescendo il numero di quanti hanno incominciato a guardare con occhi nuovi a sé stessi e alle responsabilità connesse con la vocazione cristiana. Nel gergo ecclesiastico postconciliare si sono così moltiplicate espressioni quali l’ora dei laici, il risveglio del laicato, una nuova maturità del laicato, e così via.
Aldilà di un’inevitabile enfasi nel descrivere un fenomeno forse più evocato che effettivamente realizzato, l’attenzione privilegiata accordata dal Vaticano II al tema dei laici è da salutare come un’acquisizione ecclesiologica straordinaria, poiché finalmente ha consentito alla coscienza credente di pervenire a quell’intuizione originaria per cui, in forza del battesimo, è riconosciuta a tutti i fedeli l’appartenenza a Cristo e la loro piena titolarità ecclesiale. Su questa base i padri conciliari hanno inteso illustrare le responsabilità connesse alla testimonianza evangelica dei comuni fedeli nei diversi luoghi e forme della vita ordinaria. Eppure, a sessant’anni di distanza, la questione dei cristiani laici langue. Nell’odierno scenario ecclesiale e in quello storico-civile non è dato assistere a una rappresentazione della testimonianza laicale all’altezza della sfida sollecitata dalla lettera e dallo spirito conciliari.
Prima del Concilio, l’esplosiva stagione della "teologia del laicato", nell’atto in cui si sforzò di determinare in positivo lo "specifico" dello status laicale - individuata nella cosiddetta "indole secolare" -, era stata in grado di imprimere un forte impulso alla testimonianza nei credenti comuni, non più relegati a un ruolo gregario in ambito ecclesiale e a una condizione di marginalità sul piano spirituale. Paradossalmente, però, la svolta ecclesiologica di Lumen gentium ha finito per invalidare l’impianto complessivo del capitolo sulla dottrina dei fedeli laici. La categoria di "popolo di Dio" - nell’atto in cui sollecita il superamento dello schema statico Chiesa-mondo a favore di quello dinamico di Chiesa nella storia - invita a ritenere la distinzione gerarchia-laici come successiva e conseguente a ciò che in primis unifica tutti i credenti. Ciò che supremamente conta nella vita credente è essere in Cristo perché di Cristo, dunque membri dell’unico popolo convocato da Dio. Tale "ricentramento cristologico dell’esistenza credente" comporta che l’identità dei laici non possa più esser compresa per differenza rispetto a quanti hanno ricevuto il ministero ordinato o abbracciato la vita religiosa ma a partire dalla vocazione comune a tutto il popolo di Dio. Tale acquisizione si è riflessa su due luoghi cruciali che concorrono a definire l’identità spirituale ed ecclesiale del christifidelis: l’universale vocazione alla santità cristiana e il dinamismo dell’edificazione ecclesiale, in quanto "c’è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione" (Decreto conciliare sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 2).
Uno dei fili scoperti di Lumen gentium sorge dall’interrogativo di come sia compatibile la prospettiva del capitolo II, che risolve la figura del laico in quella del christifidelis, rispetto all’impostazione del capitolo IV, ove ritorna l’impostazione precedente che vede nell’indole secolare il proprium dei fedeli laici. L’obiezione non è nuova, dato che più di un interprete all’indomani del Concilio ha segnalato l’esistenza di uno scarto o di un’incongruenza fra una prospettiva di Chiesa nettamente universalista e un’altra di stampo clericale. Nella logica del capitolo II ciò che supremamente conta è appartenere al popolo convocato da Dio, così da voler prendere congedo da una visione gerarcologica della comunità cristiana; mentre nel capitolo IV si assiste a un soprassalto del dispositivo tradizionale così che, nella logica del dualismo spirituale-naturale, ai laici è riservato in esclusiva il compito di occuparsi dell’ordine temporale. Con l’indiscutibile vantaggio di riscattare il valore positivo della testimonianza nel mondo (seppure discutibilmente affidata in esclusiva ai laici); con lo svantaggio, tuttavia, di rieditare un modello di Chiesa in cui i comuni fedeli laici appaiono di nuovo costituire la base della piramide.
Quanto al decreto sull’apostolato dei laici, la critica è concorde nel ritenere che il testo nasca tutto sommato già abbastanza datato, in quanto registrato su un assetto storico-pastorale ormai in rapido declino. Soprattutto, pur essendo approvato nel 1965, un anno dopo Lumen gentium, il decreto non beneficiò della rinnovata prospettiva ecclesiologica di quest’ultima. Apostolicam actuositatem può essere perciò considerata come un omaggio riconoscente alla gloriosa vicenda dell’Azione Cattolica "antica maniera", tanto più anacronistica in quanto vi ricorrono troppi "luoghi comuni" debitori nei confronti di una scolastica ormai soltanto ripetuta, più che frutto di una rielaborazione all’altezza delle sfide presenti.
Un siffatto giudizio - a prima vista assai perentorio - non intende affatto liquidare la questione dei laici e sottostimare il portato dell’episodio storico (ma irrimediabilmente concluso) della teologia del laicato. Mira invece a innescare un ripensamento radicale dell’intera problematica, nella direzione di ritrovare in ordine alla questione dei "cristiani comuni" (i cosiddetti laici) un criterio obiettivo e regolativo sul piano della ripresa critica, onde innescarne un fattivo riassestamento sotto il profilo della sistematica teologica e della riflessione teologico-pratica.
Procedere nella linea del superamento di un’assegnazione di ambiti esclusivi e di competenze dogmatiche e canoniche, in un’ottica di pluralità di ministeri e vocazioni che obbedisce a una logica inclusiva, relazionale e carismatica, chiederebbe non soltanto di riconoscere l’universale chiamata alla santità ma anche di recuperare per tutti il carattere laicale-secolare dell’esistenza credente - perché il seme dell’evangelo, una volta gettato, cresce e fruttifica nei luoghi della storia e negli spazi vitali dell’umano.
In un intervento del 1969, padre Carlo Maria Martini poneva un duplice interrogativo: "Che cosa vuol dire essere cristiani? Che cosa significa testimoniare Cristo nel mondo di oggi?", istituendo una perspicace corrispondenza fra il cristiano e il testimone. La risposta sollecitava una riflessione che non si attardasse sulla ricostruzione di una "specificità del laico", ricercando forsennatamente un’essenza metafisica per qualificarlo, dovendo invece interpretare un vissuto storico in cui dovrà cimentarsi la testimonianza credente. In breve, si potrebbe concludere che il laico altri non è che il "cristiano testimone".
In conclusione, un piccolo ricordo. Ormai divenuto emerito, il cardinale Martini mostrò benevolmente la sua sorpresa per il fatto che dedicassi una tesi dottorale di un milione di battute per dimostrare l’inattualità della categoria "laici" per indicare i comuni battezzati (non-chierici e non-religiosi). Egli, che nei suoi discorsi aveva assai raramente usato quel termine, incalzò: "Laikos non si trova nel Nuovo Testamento e nella Settanta, dove ricorre soltanto per le cose profane, inanimate". Perché allora affannarsi oltre? C’è da chiedersi: positivismo biblico, il suo, oppure l’utilizzo di un sano "rasoio di Occam"?