IMAGOECONOMICA
L’anno sta per chiudersi con l’ennesimo record negativo per il sistema penitenziario italiano. Il sovraffollamento delle strutture, che sembrava triste realtà confinata alle strutture per gli adulti, è – per la prima volta in un decennio – condiviso con i 17 istituti penali per minorenni (Ipm) sparsi lungo la Penisola. Mentre la criminalità minorile resta pressoché invariata nel corso degli anni, dal 2023 al 2024 il numero dei giovani detenuti è aumentato del 49% e con lei la capienza media degli Ipm che a inizio dicembre si attestava al 111% con 576 minori reclusi a fronte dei 516 posti disponibili. Tra le cause che gli addetti ai lavori additano come scatenanti del nuovo fenomeno c’è la crisi delle comunità educative, a cui i ragazzi sottoposti a provvedimenti penali possono essere affidati in alternativa al carcere o a seguito di una reclusione.
Il codice di procedura penale minorile, entrato in vigore nel 1988, indicava proprio la comunità come il luogo privilegiato per scontare la pena e il carcere – in quella norma – veniva menzionato solo come l’ultima spiaggia, una struttura da opzionare solo per insopprimibili esigenze sociali. Oggi come ieri, dunque, le comunità sono richieste per collocare gli adolescenti. «Era una misura illuminata – commenta Paolo Tartaglione, referente del settore penale minorile per il Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca) – che, tra le altre cose, specificava che le case dovessero essere miste e non ospitare soltanto giovani autori di reato, in modo da non replicare la formula del piccolo carcere. Purtroppo, però, questo pilastro sta crollando».
Le comunità in capo diretto al ministero della Giustizia sono passate dalle 22 del 1988 alle appena tre di oggi: si trovano a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria e sono gestite da dipendenti pubblici solo fino alle 16, quando subentrano operatori di enti del terzo settore convenzionato. I privati accreditati gestiscono anche il resto delle comunità educative (sono circa 600 in Italia, più o meno attive) che, però, oggi soffrono per mancanza di personale e risorse economiche. «Dopo il Covid – rileva Tartaglione – le professioni di cura hanno perso attrattività. Gli educatori hanno avuto un crollo di popolarità nettissimo: le scuole si sono trovate senza insegnanti e hanno imbarcato gli educatori. Le comunità hanno subito un esodo e molte hanno chiuso. Anche la cooperativa per cui lavoro ha dovuto sacrificare una delle quattro che gestiva». Tra le prime a serrare i battenti sono state proprio le strutture che accoglievano i giovani autori di reato, il tipo di utenza più complessa e respingente. Per tenere aperta una casa del genere, che ospita al massimo dieci ragazzi (anche se il numero può arrivare a 12 in base alle singole disposizioni regionali), servono almeno sei educatori e un responsabile. Troppi, per i tempi che corrono.
Ma la mancanza di manodopera non è l’unica ragione che ha messo in crisi le comunità educative creando il tappo che oggi ha spinto il sistema penale minorile sull’orlo dell’esplosione. Spiega Tartaglione: «Anche se le comunità hanno livelli di tolleranza altissimi, quando un ragazzo commette azioni pericolose per sé o per gli altri in modo reiterato o grave, le strutture hanno bisogno di poterlo dimettere per evitare che il resto degli adolescenti ne risentano. Oggi però lo Stato – che manca di collocamenti alternativi – non riprende in carico il minore problematico, o lo fa troppo lentamente, e questo disincentiva le comunità educative che, essendo meno rispetto al passato e avendo la coda di minori in difficoltà, rifiutano la proposta di collocamento del ministero per gli adolescenti autori di reato».
Per trovare una soluzione bisognerebbe ripensare tutto – dicono gli addetti ai lavori – con tutti gli attori coinvolti: i servizi del ministero, il tribunale dei minorenni e le comunità. Dalla Lombardia, però, che ospita circa un sesto delle comunità educative italiane – è la denuncia Tartaglione – la situazione sembra ben lontana da questa direzione. «In estate la Regione ha reso pubblica una manifestazione d’interesse, recentemente assegnata, per aprire tre comunità che noi definiamo “mostro”. Sono pensate per accogliere ciascuna 12 minori, tutti autori di reati penali e con problemi di salute mentale. Si tratta di un grosso passo indietro culturale che, se non tradisce la legge del 1988, che negli anni è stata attenuta, ne profana lo spirito. Il rischio è creare un ghetto dove i soggetti difficili verranno gestiti con controllo farmacologico più che con criteri educativi. Inoltre comunità simili – per le quali è stata prevista una retta giornaliera di 320 euro, un budget simile a quello stanziato per le strutture psichiatriche ma più che doppio rispetto ai 93 euro previsti per una comunità educativa – fanno gola a tanti e rischiano di attirare enti con poca o nulla esperienza nel settore, delicatissimo, degli adolescenti autori di reato».